Il ricordo di mio padre apparve nel novembre del 1972 sulla rivista della quale era redattore capo (la foto era quella della carta d’identità, come rivelava lo sguardo assente). Di lui era da tutti riconosciuta la straordinaria passione con cui si dedicava al lavoro (non c’erano quasi mai domeniche e solo pochi giorni di ferie, quasi sempre nella casa di famiglia di mia madre, sulle prime colline biellesi). Come ovviamente succede, il “ricordo ufficiale” scritto dai colleghi presenta sempre un’immagine ridotta della persona. Quell’elenco di comitati e sottocomitati tecnici in Italia e nel mondo dice poco o nulla di lui come uomo, se non che era apprezzato per il suo impegno, per il suo ingegno e che il suo lavoro gli piaceva. A me, la “sua” rivista incuteva una sorta di terrore reverenziale, con quelle intere pagine di formule matematiche lunghe svariati centimetri, che lui controllava e spesso discuteva con gli autori dell’articolo. Io al liceo (scientifico) in matematica veleggiavo ingloriosamente nelle ultime reiette posizioni, ed ero sempre a rischio naufragio… infatti venni rimandato a settembre – come si diceva e usava allora – due volte. La consegna del foglio bianco era spesso la mia unica via d’uscita da un compito in classe malefico…
Di mio padre non ricordo che una sola accesa discussione con mia madre. Non dico certo che sia stata l’unica, ma certo fu l’unica visibile e udibile. Come pure, e di questo sono certo, non ci fu una sola volta in cui abbia sgridato i figli, né da piccoli né da grandi. Ci fu una sola proibizione, quando chiedemmo di avere una carabina a piombini: il no fu irremovibile. Ai miei brutti voti reagiva con un sereno e rasserenante, e in fondo incoraggiante, «farai meglio la prossima volta», senza inflessioni ironiche o sfottenti. Questo sistema lo usava con me, perché con mio fratello non ce ne fu mai bisogno: lui, i brutti voti neppure sapeva cosa fossero..
Mio padre era autoironico, molto comunicativo e sapeva mantenere sempre il controllo di sé; mai lo vidi veramente arrabbiato. Suonava il violino (male, per sua stessa ammissione: «Al mio Maestro interessavano più le faraone al forno di Casa Paleari piuttosto che impartire lezioni a un allievo evidentemente non molto dotato…»), scriveva poesie in milanese, risolveva per diletto equazioni di terzo grado, aiutava i figli – soprattutto me – a fare i compiti (latino, greco, matematica), era un buon camminatore della montagna, recitava Carlo Porta per sé e Guido Gozzano per mia madre, faceva le parole crociate in tedesco e i rebus in inglese. Una volta in Svizzera, eravamo in montagna per Natale, suscitò lo stupore e il sospetto di un gruppo di sciatori della squadra nazionale dell’Urss (era l’era Krusciov) quando inopinatamente spiegò loro nella lingua di Checov che in Italia le regole del gioco della dama erano differenti (noi ragazzi eravamo impegnati in incomunicabili partite con quei signori dalla parlata astrusa). Il russo l’aveva imparato da una principessa in esilio e le altre sei se le era coltivate più o meno da solo.
Fu lui il primo a parlarmi del computer e del codice binario. Questo avvenne durante una serata piovosa nella hall di un albergo di Londra, dove lui aveva dovuto andare per tenere una relazione in un congresso riguardante l’unificazione europea per le apparecchiature elettriche. In casa lo ricordo arrampicato in cima a una scala per sistemare i suoi amatissimi libri (soprattutto quelli in tedesco e in francese), o intento a introdurne di nuovi in casa “mascherandoli” in scatole per scarpe oppure eseguendo abilmente un doppio ingresso: una prima volta palese, per controllare dove fosse mia madre, e una seconda volta furtivo, con gli oggetti del “contrabbando” (in realtà mia madre si limitava a un rassegnato: «Ma dove li mettiamo? prima o poi dovremo uscire noi»). Credo che in tutta la vita andò tre o quattro volte al cinema (due per accompagnare i bambini, una per Il federale e una mentre era all’estero per vedere Il giorno più lungo). Non sapeva nemmeno che cosa fosse il gioco del calcio. Amava organizzare scherzi, anche abbastanza impegnativi: come quando durante le lezioni di chimica spargeva la chioma del compagno del banco davanti con mina di matita nera preventivamente polverizzata; la madre della “vittima” telefonava a mia nonna per lamentarsi «dell’aria sporca che c’è in quella classe»), gli piacevano i giochi di parole e le storielle assurde. Citava spesso Achille Campanile. Ascoltava incessantemente musica (attività che interruppe completamente per due anni dopo la morte della madre): per lo più Mozart e Bach e il Settecento italiano. Una volta, mentre nella mia stanza avevo messo su un disco di jazz, aprì la porta: «Che roba è questa ?», ma non aggiunse alcuna critica (per la cronaca, si trattava di Jimmy Giuffrè). Oggi sarebbe contento di sapere che ho tutto Mozart in CD. Si era appassionato all’uso del registratore a nastro e più di una volta lo vidi precipitarsi in casa trafelato per registrare qualche cosa dal Terzo programma Rai (Mozart ? Scarlatti ?) per poi lasciarmi il compito di fermare l’apparecchio a fine concerto.
Aveva ottime conoscenze di astronomia e di zoologia. Quando i figli erano piccoli li portava in giro nel giardino di Desio alla ricerca di insetti, che catturava per spiegare tutto di loro. Poi lasciava libere le momentanee prede. Ricordo soprattutto farfalle e coleotteri. Più di un uccellino caduto dal nido fu da lui imboccato; per i merli si procurava i vermi scavando nell’orto. Se la cavava bene anche con le piante. Amava gli animali al punto che aveva serenamente sopportato che il topone bianco, compagno “di studi“ dei suoi figli (passava le giornate nel cassetto della scrivania o faceva la siesta sul vocabolario di latino, dopo essersi rimpinzato di cioccolata), avesse impunemente rosicchiato alcune copertina dei suoi libri, prediligendo quelle in pelle di antica fattura. Come principio generale sosteneva che è meglio «diffidare di chi non ama la musica e gli animali».
Quando ero piccolo (non andavo ancora a scuola) passavamo la Pasqua a Desio. Un anno mio padre andò di nascosto a comprare delle piccole uova di cioccolato e zucchero (quelle candide fuori e scure dentro). A casa disse che sapeva che quell’anno ci sarebbero state delle uova in giro tra i cespugli del giardino, ma non sapeva dove. Nel pomeriggio noi bambini saremmo andati a cercarle, ma adesso dovevamo stare chiusi in casa, altrimenti la gallinella non sarebbe arrivata. Dalla finestra della sala da pranzo lo vidi in fondo al giardino, e così potei controllare dove “deponeva” le uova. Quando arrivò il momento della ricerca mi avviai diritto là dove avevo visto mio padre nascondere il premio, ma dopo pochi passi mi fermai. Mi sarei tradito e lui ne sarebbe rimasto deluso perché avrebbe capito di essere stato spiato. Così la caccia andò per le lunghe. Alla fine qualche uovo fu trovato e quelli che ancora mancavano all’appello ovviamente li scoprì lui.
Da giovane mio padre avrebbe voluto insegnare al Politecnico (per l’insegnamento possedeva un vero talento), ma gli fu vietato perché aveva rifiutato la tessera del partito fascista. Dopo la guerra, dopo gli anni alla Edison, avrebbe voluto diventare direttore della rivista, ma non ottenne mai quel posto perché la poltrona era occupata da un suo importante e inamovibile amico. Credo che questi fatti gli pesassero molto, ma non se ne lamentò mai apertamente e proseguì anche il lavoro da libero professionista. Anche nel corso dei mesi che precedettero la sua scomparsa, quando fu costretto a letto (una vera eccezione per lui), non si lamentò. Era convinto di farcela e comunque non ne parlava. In fondo se l’era cavata benissimo anche quella volta che aveva partecipato a un congresso che si teneva a New York, portandosi dietro un piede ingessato, un ingombro che nella neve molle di quel rigido inverno statunitense minacciò di sciogliersi.