Scampoli

1  Il Testimone

Primo Levi nel suo libro più famoso, Se questo è un uomo, si considerava narratore-testimone. Dopo la guerra incontrò molte scolaresche, e i ragazzini gli chiedevano come mai dal libro non trasparisse odio e desiderio di vendetta. Per loro Levi aveva due risposte complementari: 1. di fronte a quanto narrato non c’era bisogno di suscitare sentimenti così forti e sostanzialmente “di parte”: la condanna era insita nella realtà di ciò che era accaduto. 2. Nell’Appendice dell’edizione scolastica di Se questo è un uomo spiegò: «Ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima, né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile e utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata: solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione».

2  Condivisione elettronica

Nel supplemento «La lettura» del Corriere della Sera ho trovato un articolo dedicato a Twitter. In esso si sostiene che la Rete favorisce la condivisione degli affetti. Non sono d’accordo. I messaggi su Internet (qualunque sia la “piattaforma” usata) sono ben lontani dal creare condivisione. A mio parere sono autocelebrativi, autoreferenziali, compassionevoli, inutili, spettacolarizzanti, illusori… somigliano molto a certe partecipazioni al lutto o alle congratulazioni per le nozze. Quando la mogliettina di mio nipote scrive (è cronaca reale) «Ho preparato la torta per il mio tesorino», e da Pisticci una le scrive «Che bello! era al cioccolato?», credo che la condivisione non c’entri nulla. È lo scambio di un’informazione inutile che non porterà conseguenze di alcun genere. C’è solo quello strano e per me incomprensibile impulso a rendere pubblici gli affari propri, anche i più insignificanti, quel desiderio di “apparire” in un modo o nell’altro e comunque. Quella ricerca di “compagnia” che una volta gli uomini trovavano, ben più concretamente, all’osteria e le donne sferruzzando tra conoscenti sulla porta di casa (è ovvio che sto estremizzando e romanticizzando, ma il concetto dovrebbe essere chiaro). Il nostro massimo antropologo (Ernesto De Martino) aveva parlato, per altri contesti, di «crisi della presenza»: siamo in questo ambito. «Io scrivo quindi io sono» e se qualcuno mi risponde, «io sono» ancora di più.

È vero che, come dicono gli studiosi, l’essere umano desidera sempre condividere le proprie esperienze, soprattutto quando sono negative (in altre parole: cerca conforto, sostegno e comprensione), ma siamo veramente ridotti male se riusciamo a trovare quanto cerchiamo in una frase di poche parole digitate da un perfetto sconosciuto sulla tastiera di un computer. È comunque vero che comunicare il proprio male ha già un certo effetto consolatorio. L’anonimo che raccoglie “l’appello” a sua volta si sente gratificato nella propria coscienza di copartecipe. Da qui quelle aleatorie gare di partecipazione e certe cronache giornaliere sull’andamento di un tumore o di un Alzheimer della nonna.

Forse Twitter sta erodendo lo spazio che ancora esiste per la vera amicizia, creando l’illusione di poter contare su una illimitata platea di anonimi “amici”, forse pronti a venire in nostro soccorso e nei confronti dei quali anche noi – a parole e per via telematica – siamo pronti a correre in soccorso. Uno scambio che nella realtà ha ben poche probabilità di verificarsi. Si svaluta il valore dell’amicizia, quando addirittura si arriva a computare aritmeticamente il proprio parco-amici, stabilendo anacronistiche classifiche degli affetti; un computo non a qualità bensì a peso (Facebook). Si dice che questo fenomeno sia causato dal senso di solitudine che si impossessa di una massa di individui sempre più numerosa, ma sembra più ragionevole pensare che al contrario sia tra le cause proprio di questo dilagante senso di solitudine. In fondo la bocciofila e un bicchiere di barbera avevano anche un loro preciso valore sociale.

3  Al mio posto

Che cosa possiamo dire quando ci chiedono «Tu cosa faresti al mio posto ?». La domanda non può avere una reale risposta, perché in sé contiene due termini tra loro non commensurabili: “tu” e “mio”. Rappresentano due entità che nulla o ben poco hanno in comune, essendo il risultato di storie umane totalmente separate, frutto di un’evoluzione biologica, materiale, sociale, famigliare, intellettuale, morale che si è andata evolvendo negli anni entro realtà comunque circoscritte e personali. Una storia che in massima parte è un rovello interiore che nessuno può conoscere, sovente nemmeno lo stesso soggetto direttamente coinvolto. E ogni passo di quel cammino ha avuto influenza sul passo successivo, creando di volta in volta un unicum che – poco o tanto – si differenzia da qualunque altro. Come le impronte digitali o il Dna.

Nella vita pratica si possono dare ottimi consigli («se si brucia una lampadina, cambiala») ma nella vita di relazione umana le cose non stanno così. La vita di ogni individuo è un gomitolo avviluppato e nel complesso irripetibile di fili di differenti origini, anche se alla fine si riuniscono in uno solo, che però è il risultato di tanti percorsi diversi, tra loro indipendenti. Questo è il punto debole di ogni psicoterapia che pretenda di insegnare “a vivere“ nella quotidianità dell’anima dell’individuo. Forse “io” non mi sarei mai trovato in una tale situazione, un poco per il “mio” carattere, un po’ per il carattere di chi “mi” stava intorno (anche lui “portatore” di una diversa realtà evolutiva), un po’ perché certe cose non “mi” sono accadute, un po’ per il “mio” modo di essere, un po’ per il modo di essere degli “altri” con i quali sono stato in contatto, un po’ perché la “mia” esistenza ha presentato determinati avvenimenti, un po’ perché a certi avvenimenti “io” reagisco in un modo e non in un altro che è la manifestazione del “mio” personale essere, così come si è venuto formando… la vita è una serie infinita di “accidenti” che si sommano con gli “accidenti” che hanno caratterizzato ogni singolo rappresentante del mio “prossimo”, vicino o lontano che sia: famiglia, lavoro, amore, svago, salute, malattia, incontri, delusioni, vittorie, certezze, dubbi… Insomma, un immenso coacervo di elementi personali non riproducibili in sé e nel loro contesto.

L’esperienza può solo indicare alcune linee guida, non sempre supinamente percorribili (noi siamo anche istinto, personalità, orgoglio, rabbia, dignità, ribellione, amore, gratitudine, riconoscenza, debolezza…) e non sempre giuste. C’è chi riesce a crearsi una corazza, a sviluppare – almeno entro certi limiti – la capacità di non reagire, di saper aspettare, di “porre tra parentesi”, ma non per tutti è così e non è umano che sia sempre così e sempre in eguale misura. Di fronte al reiterarsi delle provocazioni, dei soprusi, delle falsità, delle prevaricazioni, anche la più impenetrabile corazza alla fine mostra crepe. Soprattutto quando gli attacchi giungono da più persone e da più fronti.

È però a questo punto che la domanda «Tu cosa faresti al mio posto ?» è forse umanamente inevitabile. È una sorta di richiesta di condivisione, indipendentemente da quella che sarà la (quasi sempre inutile) risposta, che per lo più non viene seguita. Infatti la inutile risposta viene data già sapendo che sarà rifiutata, fraintesa, accolta solo in parte o volutamente ignorata. Ma la risposta vuole solo essere, appunto, “condivisione”, perché nei casi migliori è anche offerta di sincero affetto, quell’affetto che non trova altro modo per manifestarsi. Capita di ritenersi più forti di quanto si sia, ma capita anche di ritenersi più deboli. Nel secondo caso si crede di non poter reggere, ma poi – con stupore – si regge. Si cerca aiuto ovunque per rendersi conto, alla fine, di averlo trovato in se stessi. Fino a quando? Spesso per un tempo indefinito, perché il nostro “vissuto” ci ha resi più forti, spesso a nostra insaputa, ci ha resi in grado di affrontare anche questa prova. Guardandoci indietro vediamo quante volte abbiamo detto «non ce la faccio più» eppure siamo ancora qui; «voglio andarmene», ma siamo ancora qui. Qui, perché se ce ne andiamo crolla tutto; qui, perché c’è bisogno di noi; qui perché qualcuno ha bisogno di noi. Qui perché io sono io.

4  È poesia

Titolo Soldati. Svolgimento: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie». È una poesia e l’autore è famoso: Giuseppe Ungaretti. Tecnicamente abbiamo versi quaternari e ternari alternati. Ora scriviamo esattamente le stesse parole ma in sequenza differente: «Si sta come le foglie sugli alberi d’autunno». È ancora “poesia”? Viene da dire che la prima versione è “poesia” e la seconda “immagine poetica”: non è più divisibile tra quaternari e ternari ed è cambiato il ritmo. Per così dire: cambia la musica.

5  Per un racconto di Natale

Avrebbe avuto ancora il tempo per tornare sulla sua decisione. Esitò. In fondo era un bambino. Ma no, non ci avrebbe ripensato: era giunto il momento che qualcuno finalmente aprisse gli occhi a suo figlio. Non c’erano riusciti i compagni di scuola quindi toccava a lui, il padre. Questo Natale niente regali. Ancora il giorno prima aveva inutilmente cercato di convincerlo: «Gesù Bambino non esiste: sono papà e mamma che acquistano i doni per farli trovare sotto l’albero». Lui, come sempre, aveva sorriso, con quella inconfondibile fossetta in mezzo alla guancia destra. Poi lo aveva fissato con quegli occhi azzurri, ridenti, e aveva scosso i riccioli biondi con divertita testardaggine. Papà gli aveva esposto per l’ennesima volta il rituale ragionamento: «Allora perché i bambini poveri ricevono regali da pochi soldi o non ne ricevono affatto?». In proposito il piccolo aveva una personale teoria: «Perché devono restare poveri, così andranno in paradiso». «Ah, è così? Andiamo a parlare con il padrone del negozio qui sotto: lui ti dirà chi acquista i giocattoli». La fossetta non se ne voleva andare: «Siete tutti d’accordo. È che ai genitori piace prendersi il merito e così farvi volere più bene da noi bambini». Nulla da fare.

Mai il padre avrebbe immaginato di dover affrontare un problema di questo genere. Tutti i piccoli cercano di scoprire se veramente esiste un piccolo Gesù dispensatore di doni, e la inevitabile scoperta è un modo per sentirsi più grandi, meno bambini. In questo non manca una certa soddisfazione. È a suo modo un rito di passaggio. Già in prima elementare tutti quanti hanno fatto l’epocale scoperta. Se caso mai fosse rimasto un superstite, ci penseranno i compagni ad aprirgli gli occhi. Invece, con suo figlio, niente. Neppure la presa in giro dei compagni era servita, e in seconda classe era diventato la favola della scolaresca. Lo chiamavano “Alice”, con evidente riferimento al “paese delle meraviglie”, il “suo paese”.

La sera della vigilia la famiglia si riunì intorno alla tavola per la cena. Padre, madre e i due figli. Il più piccolo, cinque anni, aveva già capito tutto sul “mistero” dei regali ed era anche un po’ preoccupato perché non avvertiva quel movimento, quelle occhiate tra i genitori che vogliono dire che in casa c’è qualcosa, introdotta occultamente la notte precedente. Scambiarono poche parole. Per lui, il padre, c’era qualche nebbia di rimorso che gli appannava il cuore. Forse era stato troppo duro. Forse avrebbe dovuto preparare un regalo anche per il maggiore. Forse avrebbe dovuto ragionare più a lungo, con maggior calma, senza lasciare spazio alla stizza. Alzò il viso dal piatto e incontrò lo sguardo ridente del figliolo, il volto segnato allegramente dalla fossetta. Avrebbe voluto dire qualche cosa, ma non seppe trovare le parole.

Era a letto da diverse ore. Tutti dormivano. Lui no. Che razza di Natale sarebbe stato domani? Suo figlio avrebbe pianto? Si sarebbe arrabbiato sentendosi punito ingiustamente? Forse c’era un modo diverso per convincerlo di come stava realmente la faccenda. Ora era tardi. Sentì un rumore provenire dal salotto, come se qualcuno avesse appoggiato sul pavimento un oggetto pesante, con cautela. Tese l’orecchio. Il rumore si ripeté. Girò lo sguardo verso la porta che era rimasta aperta e notò che dal corridoio proveniva una leggera luce. «Ho dimenticato accesso il lumino del presepio», pensò con rassegnazione. Si alzò. Piano, a piedi nudi, si avviò verso il salotto. Prima però andò a bere in cucina. La luce adesso sembrava aumentata. Aveva una tonalità azzurra. «Strano», pensò, «la lampadina del presepio me la ricordo giallognola. Ma già, quando si è mezzo addormentati si vede male». Ancora quel rumore. Senza dubbio in salotto c’era qualcuno. «Vuoi vedere che si è alzato per vedere arrivare Gesù Bambino! Adesso lo spedisco a letto con una bella benedizione in fondo alla schiena». Gli era tornata la rabbia. Per sorprenderlo sul fatto fece ancora più piano. Aprì lentamente l’uscio. Solo pochi centimetri.

La stanza era invasa dalla luce e la luce non proveniva da nessuna parte. In piedi, vicino al divano, stava una figuretta che muoveva ingombranti pacchi colorati. Rimase pietrificato. Lo vedeva di spalle. Chiunque fosse era piccolino. Indossava una specie di camiciona che gli scendeva fino ai piedi, lasciandoli però nudi e scoperti. Gli sfuggì un’esclamazione di sorpresa. Il piccolino si girò. Era un bambino, con i riccioli biondi e gli occhi azzurri. Sorrideva, mentre una fossetta gli segnava la guancia destra.

6  Un violino in una falsa biografia 

Rientrò tardi. La famiglia stava per mettersi a tavola. In ogni caso la minestra andava riscaldata. Lui detestava la minestra riscaldata. Sarebbe bastato solo questo a guastargli l’umore. Ma quello che lo faceva veramente infuriare era la ragione del ritardo: uno scocciatore, un questuante che aveva scambiato lui, rinomato liutaio di Cremona, per un mecenate. O per un allocco. Pazzesco!

«E non se ne voleva andare», riferì alle donne che facevano cerchio intorno a lui e al suo malumore, mentre nonno e bambini erano già seduti a tavola, impazienti. «Insisteva, insisteva, proprio non voleva capirla, non voleva andarsene…». Si levò la palandrana, rimboccò le maniche e si sedette con gli altri, sbuffando.

«In conclusione, che cosa voleva da te? Soldi?», chiese la moglie, portandogli le pantofole.

«No, voleva un violino. Un violino per il figlioletto. Capirai, uno viene da un famoso artigiano di Cremona e gli chiede un violino… e lo vuole gratis. Cosa da pazzi! Questi stranieri hanno una faccia tosta incredibile»-

«Ma tu dovevi mandarlo via subito», incalzò la moglie, con tono di rimprovero e rabbrividendo all’idea di un violino regalato e della minestra che aveva dovuto rimettere sul fuoco.

«Sì, lo so… avrei dovuto», chiosò lui mentre gettava un’occhiata alla zuppiera fumante che stava arrivando in tavola. «Ma sai bene come vanno queste cose. Entra in bottega uno che a fatica parta la nostra lingua e allora ci si fa in quattro per capire cosa dice, per sapere cosa vuole. Quello in principio chiede informazioni sugli strumenti e capisci che è uno che se ne intende. Pensi stia cercando uno strumento molto speciale, molto particolare, e quindi dove se non a Cremona? Poi improvvisamente si mette a parlare dei figli (quel tizio ne ha due, una femmina e un maschietto). Afferma che sono bravissimi, veri geni, che si sono esibiti già più volte in pubblico, suscitano meraviglia…  allora uno ci casca. Sta a sentire. In realtà mica ho capito subito dove intendeva andare a parare».

«E quando hai capito?». La padrona di casa aveva cominciato a scodellare la minestra, respingendo l’assalto del figliolo più piccolo che disinteressato della relazione paterna ora pretendeva un diritto di precedenza, forte di un appetito troppo a lungo represso.

«Quando ho capito, gli ho detto papale papale che io i violini li fabbrico per venderli non per regalarli!».

«Che coraggio! Come si fa a venire da un artista come te, un grande Maestro liutaio, e chiedergli in regalo una delle sue preziose opere? Roba da non credere!».

«Be’, a dire il vero non si trattava proprio di un regalo. Proponeva un baratto…».

«Un baratto?! Di che genere?».

«In cambio del violino mi avrebbe fatto scrivere qualche cosa dal figlioletto… che ne so? Una composizione, magari un concerto, diceva. Pare che il piccolo mostro sappia anche comporre. Figuriamo poi cosa, a quell’età!».

«Spero tu abbia rifiutato».

«Certo che ho rifiutato, per chi mi prendi? I bambini prodigio non esistono più. Ammesso che mai siano esistiti. Diceva che mi avrebbe regalato la partitura e voleva farmi credere che il piccolo l’avrebbe scritta in una notte. Figuriamoci. L’ho mandato a quel paese».

«Lui ci deve andare, quello è il suo posto!», scampato il pericolo la donna si era fatta sarcastica.

«Sai come sono gli stranieri. Fingono di non capire. Domani ripasserà».

«Santo Dio!».

Adesso le scodelle erano vuote, tranne quelle dei due coniugi, che presi dalla conversazione la minestra l’avevano a malapena assaggiata.

«Sai almeno come si chiama quel rompiscatole?».

«Mi ha lasciato il suo biglietto… eccolo. Viene da Salisburgo. Si chiama Leopold… Leopold Mozart».

7  La felicità si può misurare?

Ho ricevuto e letto una cospicua e problematica dissertazione su «economia e felicità». Involontariamente mi si affacciano alcune personali considerazioni, non so quanto pertinenti. Forse manca una base di partenza condivisa, vale a dire la definizione stessa di che cosa sia la felicità. Forse perché la felicità è indefinibile, in quanto stato dell’animo che si trova a un livello assolutamente personale, uno stato d’animo che (spero) tutti conoscano almeno una volta nella vita ma che non credo siano in grado di realmente comunicare e esprimere. Ritengo che sia uno stato d’animo passeggero, che non dura nel tempo, ma che – quando ci va bene – viene sostituito da altri, come gioia, soddisfazione, appagamento, serenità, autostima. Lo stesso “innamoramento” (forse il più alto grado di felicità) non gode di vita eterna, ma con il tempo – quando va bene – si adagia e si placa nella serenità (è un punto di vista personale e come tale esposto ad ogni critica e confutazione).

Soprattutto non vedo la possibilità di confinare negli angusti e freddi limiti di un punteggio (da 1 a 10) il proprio grado di felicità. La felicità o è 10 o non è: così la vedo io. In ogni caso il proprio “grado” di felicità è in funzione del momento in cui viene posta la domanda. Non solo, dipende anche dal contesto in cui si vive, da che cosa ci capita, da chi ci sta accanto, dal lavoro che svolgiamo, dai familiari che ci stanno intorno, dalle prospettive cha abbiamo, da cosa ci aspettiamo per domani o fra un anno, da un evento fortuito e inaspettato e da altro ancora… Poi, cosa significa una valutazione da 1 a 10? È un classificazione in uso anche in medicina: «Mi dica quanto le fa male, da 1 a 10». Ma ogni individuo ha una sua scala del dolore, come pure della felicità. Inoltre davanti a una domanda “indagatrice” si è portati a dichiarare – magari inconsciamente – il falso, ad apparire quello che non si è, a indurre invida o commiserazione, comprensione o lontananza. Lo si fa spesso nei rilevamenti statistici telefonici, figurarsi quando l’indagatore è davanti a noi e ci chiede lo stato di una realtà tanto intima e imponderabile, o quando ci viene richiesto di compilare un questionario.  Che «i soldi non fanno la felicità… ma aiutano» è un vecchio detto spruzzato di sarcasmo, e un po’ di verità la contiene. Ciò è tanto più vero in un mondo dominato dal consumismo e dall’imperativo categorico del “di più” e del non averne “mai abbastanza”. Comunque mi permetto di eccepire il fatto che l’auto nuova possa rendere felici, casomai più semplicemente procura gioia. Una gioia passeggera, perché dopo un po’ l’auto diventa inevitabilmente vecchia e ce n’è certo un’altra che è migliore e sarà perversamente più desiderabile… a quel punto addio gioia, che comunque è solo un surrogato della ineffabile felicità.

Mi rendo conto che la felicità è una componente interna della vita di ognuno, e che quindi solo l’interessato può valutarne il peso (ammesso che tale peso sia valutabile), che può mutare in funzione di mille variabili consce e inconsce… il punto debole, forse, è che poi quelle valutazioni vengono messe in un frullatore comune e se ne ricavi una media nazionale, così torna d’attualità il banale pollo di Trilussa.

8  Appunti

Nella Quinta Strada di New York qualche tempo fa camminava a mo’ di pendolo un uomo di colore di mezza età. Vestito con una certa cura, si accostava con distinto riserbo a numerosi passanti. Certamente gli obiettivi non erano casuali, ma seguivano un preciso criterio: persone di età avanzata e con abiti eleganti. Uomini e donne. Il colored somigliava come una goccia d’acqua all’attore Eddie Murphy, quello di Una poltrona per due. Gli somigliava non solo fisicamente, ma anche nella chiassosa risata. Alle persone che fermava chiedeva un’informazione qualunque. Poi ringraziava, salutava il momentaneo interlocutore, e gli consegnava con molto garbo una cartolina: «Questa è la mia casa, quando passi di là vieni a trovarmi». La cartolina raffigurava la Casa Bianca di Washington. [AeP]

Nella parte messicana della città di Tijuana, la graziosa ragazza color caramello si avvicina al gruppo di turisti appena sceso dal pullman. «Ustedes… yankies?», domanda incuriosita. «No, italiani», è la risposta. «Aaah, italiani… Italia, Al Capone!». [AeP]

Là dove cielo e mare si confondono in un uniforme colore di piombo, al largo di Cape Ann, le balena salutano irriverenti i turisti con scherzosi colpi della gigantesca coda, svettante come una bandiera. Mentre un raggio di sole taglia obliquo l’angusto spazio verticale concesso alla vista dalle nereggianti nuvole incombenti, e un vento di ghiaccio prende a pugni lo stomaco. [AeP]

L’imponente gatto rosso se ne stava accovacciato sul muretto di fronte all’oceano che bagna il New England, mentre il vento gelido del tramonto gli faceva il contropelo. «Qui è sempre così», informò la giovane ragazza vestita di viola, ridendo mentre con una mano tratteneva a stento i neri capelli presi in ostaggio dall’ultimo vortice, «rientriamo a ripararci tra le case». [AeP]

Come dimenticare il candido albergo di dodici stanze sulla sponda del lago del nord, e dalla finestra il minuscolo camposanto dall’erba verdissima tagliata radente, con la rugiada che scintilla al primo sole e le nere lapidi che erompono dal terreno, quasi tronchi spezzati sotto il cielo di madreperla? «In quell’isola laggiù», spiega la signora dall’antico volto scozzese, «si rifugiò la fanciulla Maria Stuarda». Ma già è ora di partire. [AeP]

Stranezze lessicali. Il grosso furgone che porta rifornimenti di cibarie alla confusa rivendita gestita da cinesi, mostra, su una fiancata, la scritta: VERDURE  FRUTTA  ALIMENTALI. [AeP]

Falso bordone: nemmeno del “bordone” ci si può fidare. [AeP]

Lo strano paese dove alle finestre non fioriscono gerani ma prosciutti: Langhirano. [AeP]

Leggere racconti può rivelare insospettate assonanze. Come quella che unisce I morti, ultimo racconto di Gente di Dublino di James Joyce, con Lo sconosciuto, presente in Garden Party di Katherine Mansfield. In entrambi i racconti la moglie rivela al marito un fatto. Ne I morti si tratta della morte di un giovane innamorato senza speranza che non si rassegna alla partenza della fanciulla dal collegio; nel secondo – Lo sconosciuto – della morte improvvisa di un compagno di crociera con il quale la giovane moglie non ha mai scambiato neppure una parola, e che esala l’ultimo respiro tra le braccia di lei. Nell’animo dei due mariti, il primo di vecchia data il secondo di recente status, si scatena la babele dei sentimenti, un tumulto interiore che mai troverà vera pace. Indimenticabili i due finali: «C’era neve dappertutto in Irlanda. Cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulla nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dov’era sepolto Michael Fury. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.» — «“Non ti… non ti dispiace mica che te l’abbia detto, John caro? Non ti ha rattristato? Non ha mica rovinato la nostra serata… la nostra serata soli insieme?”. Lui dovette nascondere il viso. Glielo premette sul petto e la circondò con le braccia. Rovinato la loro serata! La loro serata soli insieme! Non sarebbero stati soli insieme mai più». [AeP]

Uno iato nel tempo. La poesia di Anna Achmàtova «Strinsi le mani sotto il velo oscuro» induce il lettore a immaginare che cosa fosse successo prima della separazione dei due amanti, e che cosa potrà succedere dopo. Molti quadri di Edward Hopper inducono l’osservatore a pensare che sia appena accaduta qualche cosa o che qualche cosa stia per accadere. [AeP]

«Mi piace molto quando la gente racconta della propria infanzia, ma devono farlo alla svelta, altrimenti io mi metto a parlare della mia»: è l’inizio di un breve scritto di Dylan Thomas, datato 1943. La situazione è molto attuale: anche oggi l’ansia di parlare di sé esplode nella comunicazione orale, e non è raro che chi abbia già iniziato a parlare per rispondere a una domanda sia immediatamente interrotto e sovrastato dall’interlocutore, che lo travolge con ricordi personali, aneddoti, similitudini, fatti accaduti a lui o ad altri, considerazioni, contestazioni, citazioni, allusioni… un fiume in piena inarrestabile e incontenibile… allora il “rispondente”, sconsolato, si arrende e tace, per lo più fingendo di ascoltare e di assentire. [AeP]

Autoscatto. Internet ha dato immenso spazio al narcisismo fotografico che alberga in tutti gli esseri umani. A volte con risultati autolesionistici. [AeP]

La prima volta che ascoltai Bob Dylan (disco Freewheelin‘), la sua chitarra suscitò in me, diciannovenne, l’impressione delle unghie di un cane che zampetta su un pavimento di piastrelle. [AeP]

Nei ricordi sono i particolari più piccoli, più insignificanti, a segnare con maggior forza la mente e l’anima. Quando tutto è finito rendono più vero ciò che è accaduto. [AeP]

La follia di Almayer di Joseph Conrad oltre che un grande romanzo è un perfetto canovaccio per un film che unisca avventura e introspezione psicologica. Lucidamente commovente la parte nella quale Almayer cerca di convincere la figlia Nina a non abbandonarlo. [AeP]

L’inizio del film Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (titolo originale Jeremiah Johnson) ha le parole e il ritmo di una ballata. A ben vedere, tutto il film di Sydney Pollack è una lunga ballata. [AeP]

Ci sono argomenti sui quali ognuno si sente in diritto di scrivere o dire qualsivoglia sciocchezza. Di questa realtà ci rendiamo conto quando leggiamo articoli di giornale che trattano una materia della quale siamo buoni conoscitori. Come possiamo fidarci di tutto il resto? [AeP]

Nella Premessa del traduttore, posta in apertura alla raccolta Conoscenza della notte e altre poesia di Robert Frost, il curatore e traduttore Giovanni Giudici scrive: «Non è qui il caso di risollevare in astratto la questione delle cosiddette traduzioni poetiche; che i versi vadano tradotti in versi, è abbastanza pacifico; ma altrettanto pacifico resta il fatto che, nella traduzione, molto va perduto di ciò che la critica moderna chiama il “modello” dell’originale: ossia quella particolare e irripetibile somma di suoni e significati e peculiarità lessicali e prosodiche, la cui concomitanza da luogo al risultato poetico». Nella frase è introdotto un assioma la cui validità viene – forse inconsapevolmente – contestata immediatamente dopo. A mio parere le poesie non sono mai traducibili, ma al massimo – come affermava Umberto Eco in un suo libro a un tempo godibile e interessante, anche se non completamente condivisibile – tradurre significa Dire quasi la stessa cosa. [AeP]

La Storia della Guerra Civile Americana di Raimondo Luraghi è un libro di storia tra i più belli, avvincente come un romanzo pur fondandosi solo su una documentazione minuziosa e su fatti accertati. [AeP]

La struttura del Concerto per clarinetto di Mozart ricorda la purezza dell’architettura della Grecia classica [AeP]

Lo stesso anno in cui uscivano I racconti di Belkin di Pushkin, quasi ignorati dalla critica e non compresi da un pubblico disorientato, usciva anche Veglie alla fattoria presso Dikanka, prima opera di Gogol. Pushkin, al culmine della fama, così giudicò il lavoro del giovane esordiente: «Ho finito di leggere Veglie alla fattoria preso Dikanka. Mi hanno lasciato sbalordito. Questa sì che è autentica allegria, un’allegria disinvolta, senza smancerie e affettazioni. E poi quanta poesia, quanto sentimento in certi passaggi!». [AeP]

Nel finale del film Whisky e gloria Alec Guinness descrive ai subalterni come dovrà essere il funerale del colonnello suicidatosi nei cessi con un colpo di pistola alla tempia. [AeP]

Quando una persona muore in quel preciso istante va perduta per sempre tutta la sua cultura, non solo la massa delle sue cognizioni, che d’altra parte potrebbero essere trasferite sulla pagina scritta nel corso della sua vita, ma il ben più prezioso modo in cui queste erano organizzate, il modo stesso di usarle, i sottili fili che le collegavano tra loro, e che sono, questi sì, esclusivi di ogni singolo individuo. Dunque, irripetibili. [AeP]

Goethe, che non aveva mai degnato Schubert, fu colmo di attenzioni per il giovane Mendelsshon. Il primo era povero, il secondo ricco e appartenente a una famiglia rinomata. [AeP]

Ascoltando la Nona Sinfonia di Beethoven si nota come gli spunti melodici non vengano mai spremuti al limite estremo ma scompaiano quando ancora se ne avverte il fascinoso richiamo. Come quando ci si alza da tavola con ancora un po’ di appetito. [AeP]

In una composizione musicale è sovente la “ripresa” il momento più toccante. [AeP]

9  Contributi

Indipendentemente dallo sguardo buono o cattivo che posso rivolgere sugli uomini, li trovo sempre, tutti e ognuno in particolare, impegnati in un compito: «Fare quel che giova alla conservazione della specie umana». (…) poiché questo istinto è appunto l’essenza della nostra specie e del nostro gregge. [Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1886]

Casa è quel posto dove, quando ci devi andare,/ loro devono accoglierti. [Robert Frost, La morte del bracciante (The Death of the Hired Man)]

Ho letto alcune versioni da lui portate a termine (traduzioni di Roberto Sanesi), e nei limiti entro i quali l’essenza d’ogni poesia può essere comunicata in una lingua diversa da quella del poeta, sono certo che egli mi abbia reso giustizia [T. S. Eliot, Nota alla prima edizione italiana, di Poesie, 1961]

La tradizione (…) non può venire acquistata in eredità (…) essa in primo luogo implica quel senso storico che si può considerare come strettamente indispensabile a chiunque voglia continuare a far opera di poesia dopo i venticinque anni. [T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent, 1917]

Il disco è la prima forma di rappresentazione musicale che si lascia possedere in quanto cosa. [Theodor W. Adorno, La forma del disco, 1934]

Riuscire a trasformare le vicende della propria vita in racconto è una grande gioia: forse l’unica felicità che un essere umano possa trovare su questa terra. [Karen Blixen]

Quando amiamo, l’amore, troppo grande per poter essere interamente contenuto dentro di noi, s’irradia verso la persona amata, dove incontra una superficie che l’arresta forzandolo a tornare verso il suo punto di partenza, ed è questo urto “di ritorno” della nostra propria tenerezza che noi identifichiamo con i sentimenti dell’altro e che ci incanta più che all’andata, giacché non lo riconosciamo come proveniente da noi stessi. [Marcel Proust, La recherche]

Quando il «popolo» non era ancora stato scoperto e la gente comune collimava perfettamente col «volgo», la nozione di «cultura popolare» veniva a coincidere quasi contemporaneamente con quella di superstizione, di «errore», di «pregiudizio». [Piero Camporesi, Rustici e buffoni]

La scuola, (è) organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente (…), non solo nel senso di classe politica (…) ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico (…). Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. (…) La classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi. [Piero Calamandrei, Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale, 1950]

Nulla è caratteristico dei movimenti totalitari in genere, e della qualità della fama dei loro capi in specie, come la sorprendente rapidità con cui questi sono dimenticati e la sorprendente disinvoltura con cui sono sostituiti. [Hannah Arendt, Il totalitarismo, 1951]

Democrazia: un pessimo regime politico del quale non si è trovato uno migliore. [Winston Churchill]

Il vero e il falso, il bene e il male non possono dipendere dal numero e dalle opinioni (di chi giudica, ndr). [Gustavo Zagrebelsky, Il crucifige]

A Ravel chiesero a chi  si riferisse il titolo Pavane pour une infante défunte. Rispose: «A nessuno… quel titolo l’ho scelto per l’allitterazione».

Darsi sempre del “tu” è una finta familiarità che rischia di trasformarsi in un insulto. Il problema del “Tu” generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati, (…) pertanto i pronomi d’allocuzione hanno a che fare con l’apprendimento e la memoria culturale. [Umberto Eco, La Repubblica]

L’unico scopo che autorizzi l’esercizio del potere nei confronti di un qualsiasi membro di una comunità civile contro la sua volontà, è quello di evitare il danno agli altri. (…) Nella condotta di chiunque, l’unico aspetto soggetto alla competenza della società è quel tanto che riguarda gli altri. Per ciò che riguarda lui e lui solo, la sua indipendenza è di diritto assoluta. Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano. [John Stuart Mill, La Libertà, 1859]

All’improvviso (…) capii che hanno ragione coloro che sostengono che ciò che è stato scritto non può essere distrutto! Si può stracciarlo, bruciarlo… nasconderlo alla gente. Ma non a se stessi, mai! Ciò che è scritto è definitivo. Incancellabile. [Michail Bulgakov, Appunti sui polsini]

Quasi senza eccezioni, sino ad oggi l’estetica musicale è proceduta basandosi sopra un equivoco: essa cioè non si occupa tanto di indagare che cosa sia bello nella musica, quanto di rappresentare i sentimenti che questa suscita in noi. [Eduard Hanslick, Il bello musicale, 1854]

La musica è tutto quello che si ascolta con l’intenzione di ascoltare musica. [Luciano Berio, Intervista sulla musica]

Lago di Garda. Qui, dove per sbaglio nascono i limoni. [Piero Chiara]

Dobbiamo vedere con preoccupazione il procedere delle nostre società verso l’omologazione, un fenomeno che riguarda molti livelli dell’esistenza, dai consumi opportunamente detti “di massa”, alla cultura anch’essa “di massa”, ai divertimenti “di massa”. Chi non si adegua passa, nel migliore dei casi, per un “originale”; nel peggiore per uno “spostato”, da evitare, emarginare, bandire dal gruppo, tanto più in quanto, con la sua stessa esistenza, solleva dubbi e interrogativi sul pigro conformismo della maggioranza [Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia]

Mozart invece può essere amato liberamente e spontaneamente dal dilettante. [Saul Bellow, Mozart]

Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato, si è spezzato il legame dei tempi, abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto e per noi non c’è un’attualità autosufficiente, abbiamo perso il senso del presente. [Roman Jacobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti]

Io considero la musica, a cagione della sua essenza, impotente a “esprimere” alcunché: un sentimento, un’attitudine, uno stato psicologico, un fenomeno naturale… L’“espressione” non è mai stata la proprietà immanente della musica. (…) Se, come quasi sempre accade, la musica sembra esprimere qualcosa, si tratta di un’illusione e non di una realtà. È semplicemente un elemento addizionale che, per convenzione tacita e inveterata, le abbiamo prestato, imposto, quasi un’etichetta, un protocollo, insomma un’esteriorità, e che per abitudine e incoscienza, abbiamo finito per confondere con la sua essenza. [Igor Stravinskij, Cronache della mia vita]

Ci si accorge solo troppo tardi che ci è passato accanto un genio (Bernhard Paumgartner, Schubert)

Questi cani non hanno sentimenti e idee personali e si abbandonano come ciechi al chiasso dell’opinione altrui. Se soltanto ti potessi procurare un paio di critici che ti battessero la grancassa e seguitassero a parlare di te senza sosta su tutti i giornali… Io so di gente assolutamente insignificante che di questi mezzi è diventata famosa [lettera di Schobert a Schubert]

Contrariamente a qualunque azione vitale, [l’esecutore musicale] deve cercare di penetrare dall’esterno all’interno e non, come il creatore, dall’interno all’esterno [Wilhelm Furtwaengler, Interpretazione, problema capitale della musica]

Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli [Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli]

Acquistate pure tutta l’abilità che volete ma lo sforzo di un’esecuzione musica complessa sarà sempre accompagnato da un’attività, una vigilanza, un’ansia inconciliabili con quell’incantamento e quell’estasi che sono condizioni essenziali per godersi la musica. E anche supponendo che un meccanismo potesse eseguire un intero oratorio senza richiedere altra collaborazione da parte dell’ascoltatore che una spinta data ogni tanto con un piede, anche quel leggero tocco del piede guasterebbe affatto il vostro piacere [ Thomas De Quincey, Confessions of an English Opium-Eater]

Tango, un pensiero triste che si balla. [Enrique Santos Discépolo]

Un lusso di altra specie affatto caratteristico del Galles era in quei giorni, e spero anche in questi, l’arpa gallese, presente in ogni albergo [Thomas De Quincey, Confessions of an English Opium-Eater]

La musica a sua volta è la scienza degli atteggiamenti amorosi riguardo all’armonia e al ritmo [Platone, Simposio]

Dai musicologi del ventunesimo secolo la nostra epoca forse non sarà indicata con il nome di una scuola di compositori o con quella di uno stile musicale. Forse sarà indicata come il periodo del fonografo o l’epoca dell’orecchio d’oro, quando per un certo tempo un’appassionante ricerca sonora aveva messo in ombra la capacità creativa musicale. Nastro e giradischi avevano riprodotto musica swing e sinfonie, musica pop e primitiva con uguale fedeltà e gli Lp ad alta fedeltà avevano messo la musica del mondo intero a disposizione di tutto il  genere umano [Alan Lomax, HiFi/Stereo Review]

Franz Strauss, padre di Richard, era un grandissimo suonatore di corno e nutriva un odio viscerale per la musica di Wagner. Dopo la prima a Monaco di Tristan und Isolde, Wagner disse a Franz: «Non riesco a capire, Strauss, come lei possa essere un antiwagneriano così accanito dal momento che suona la mia musica in modo tanto meraviglioso». Franz rispose secco: «E con questo? Non vedo il nesso tra le due cose» [Quirino Principe, Strauss]

In un mercato Socrate esclamò: «È incredibile di quante cose io non senta il bisogno».

C’è sempre un passato regime, un passato governo, una passata amministrazione pubblica cui attribuire, in Italia, omissioni e nefandezze. […] Anche lui, evidentemente, come di solito gli italiani, riteneva che le trasgressioni di un pubblico amministratore a favor nostro siano ben altra cosa, e quasi dovuta, di quelle fatte a favore di altri [Leonardo Sciascia, La biblioteca di Mattia Pascal]

La maggior parte delle canzoni commerciali, così come le tappezzerie sonore che si autoproclamano d’avanguardia e la traduzione in musica del gioco della tombola, hanno un solo livello d’ascolto: ma c’è la musica che ha molti livelli d’ascolto e che è produttrice continua di senso musicale. [Luciano Berio, Intervista sulla musica]

Ci si convince meglio con le ragioni trovate da se stessi che con quelle venute in mente ad altri […] Quando si vuol correggere utilmente qualcuno e mostrargli che sbaglia, conviene prima osservare da quale lato egli consideri la cosa, perché di solito da quel lato è vera, e riconoscergliene la verità, ma, in pari tempo, mostrargli per quale altro aspetto è falsa. Di ciò resterà contento, perché vedrà che non s’ingannava e che il suo errore stava solamente nel non vedere tutti gli aspetti della cosa [Blaise Pascal, Pensieri].

Mente come un testimone oculare (detto russo, in Dmitrij Sostakovich, Le memorie)

È nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando ormai appartiene a un lontano passato [Hanna Arendt, La banalità del male]

Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha la coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri. [Antonio Gramsci, Quaderni del carcere]

La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. La condizione della cultura nelle varie società del genere umano, nella misura in cui può essere indagata sulla scorta di principî generali, è un argomento che si presta allo studio delle leggi del pensiero e dell’agire umani. [Edward Burnett Tylor, Primitive Culture, 1871]

Detestate la cattiva musica, non disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, ben di più di quella buona si è riempita a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini. Consideratela per questo degna di venerazione. Il suo posto, nullo nella storia dell’arte, è immenso nella storia sentimentale della società [Marcel Proust, Les Plaisirs et le Jours]

È stato anche in forza di queste posizioni del relativismo culturale che la storia (non solo quella scientifica ma anche quella cinematografica se non ancora quella fumettistica) dei “pellirossa” d’America e dei “pionieri” e cowboys si è venuta trasformando, e ha cominciato a presentarci non solo le “ragioni” dei “bianchi” (“buoni”) e i torti dei pellirossa (“feroci”), ma anche le ragioni degli indiani, duramente scacciati dal proprio territorio, resi feroci dal sopruso, corrotti dalla malvagità dei bianchi ecc. [Alberto M. Cirese, Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali]

Io ho sempre preferito lavorare in studio, fare incisioni o suonare per radio o per televisione; per me il microfono è un amico non un nemico e la mancanza di pubblico nella totale anonimità di uno studio mi fornisce il maggior incentivo a soddisfare le mie esigenze senza soggiacere ad altra considerazione o condizionamenti quali quelli derivanti da un appetito intellettuale presente o assente nel pubblico. [Glenn Gould, Lettere]

Tutti capiscono, a loro modo, la musica. Penso addirittura che non ci sia un modo giusto e un modo sbagliato di ascoltarla: ci sono modi più semplici e modi più complessi. [Luciano Berio, Intervista sulla musica]

Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex-nemico, che mi fa considerare come imputato, e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. [Alcide De Gasperi, Conferenza di Pace, Parigi, 10 agosto 1946]

Le attuali apparecchiature elettroniche per la registrazione del suono non solo possono migliorare la voce dell’interprete ma sono anche decisamente ingannevoli e possono dare l’impressione di trovarsi davanti a un talento, là dove talento non c’è. Ma nemmeno la più sofisticata apparecchiatura per la registrazione è in grado di creare quel qualcosa di unico che conferisce a Bessie Smith, Aretha Franklin, Mahalia Jacksom – e altri interpreti non appartenenti al mondo del jazz, come Carlos Gardel ed Edith Piaf – quel loro fascino senza tempo [Chris Albertson, libretto allegato a Bessie Smith – The Complete Recordings]

10  MARTEDÌ: UN BICCHIERE DI POESIA

Un mio ottimo amico (in senso morale e sociale) gestisce a Milano una storica rivendita di vini-&-affini. Una “cantine” ben nota in città, in regione, in Italia, e conosciuta anche all’estero. Il mio ottimo amico, insieme con la madre (appassionata di letteratura e di musica lirica), aveva da tempo dato vita ai «martedì della poesia». Alla sera, davanti a un pubblico decisamente composito per età, professione, sesso, passioni e interessi, l’ottimo amico saliva su uno sgabello e leggeva, con buona spigliatezza e sicuro sentimento, una poesia. Chi tra i presenti rispondeva al quesito finale si guadagnava un invidiabile e invidiato bicchiere. Non è secondario il fatto che nella “cantine” trovino alloggio 1.900 etichette diverse, all’interno delle quali 150 sono di champagne e 200 di superalcolici di vario genere e nazionalità. Dal canto suo, l’ottimo amico è sempre ben disposto a stappare una nuova bottiglia (felice disponibilità inaugurata dal padre, e che da anni caratterizza lo spirito che anima la “cantine” ).

Un giorno del marzo 2020 arrivò il lockdown. Chiusura obbligatoria, saracinesca abbassata, consegne esclusivamente su ordinazione telefonica o per asporto immediato, niente più pubblico per gli affollati «martedì della poesia» (con qualche sconfinamento nella prosa). Ma la soluzione è stata trovata: la lettura viene registrata in video con il telefonino e postata su Instagram, ovviamente il martedì sera.

Una mattina io sono davanti al banco per il solito cappuccino mentre l’ottimo amico non ha ancora individuato la poesia del giorno. Mi chiede di suggerirne una, con relativo quesito finale al quale gli internauti di buone letture e sapiente uso di internet potranno trovare la risposta e, passando di lì, aggiudicarsi la ricompensa. Poesia, poeta, quesito: fornisco tutto. Nasce una collaborazione, della quale qui sono riportati alcuni frutti.

Il colloquio della preghiera

Il colloquio delle preghiere sul punto d’esser dette
dal bimbo che va a letto e dall’uomo sulle scale
che sale all’alta stanza dell’amata morente,
indifferente l’uno a chi nel sonno andrà incontro,
l’altro pieno di lacrime temendola già morta,

S’aggira per il buio sulle ali del suono che essi sanno
salirà verso i cieli rispondenti su dalla verde terra,
dall’uomo sulle scale e dal bimbo accanto al letto.
Il suono che sta per levarsi nelle due preghiere
per il sonno in terra sicura e per l’amata che muore

Sarà uno stesso volo doloroso. Chi calmeranno?
Dormirà illeso il fanciullo o sarà in lacrime l’uomo?
Il colloquio delle preghiere sul punto d’esser dette
s’aggira tra i vivi ed i morti, e l’uomo sulle scale
non troverà morente, stanotte, ma viva e calda nel fuoco

Del suo trepidare nell’alta stanza il suo amore.
E il fanciullo indifferente a chi va la preghiera
affogherà in un’angoscia profonda come sarà la sua tomba,
e con gli occhi del sonno fisserà i neri occhi dell’onda
che su per le scale lo trascina verso una che è morta

Una delle poesie più famose del gallese Dylan Thomas, nella traduzione di Ariodante Marianni. Era in programma una collaborazione tra il poeta e un grande compositore del secolo scorso, quando il 9 novembre 1953 Thomas morì.  Domanda: Chi era il compositore? – Risposta: Igor Stravinskij.

Crescenzago

Tu forse non l’avevi mai pensato,
ma il sole sorge pure a Crescenzago.
Sorge, e guarda se mai vedesse un prato,
o una foresta, o una collina, o un lago;
e non li trova, e con il viso brutto
pompa vapori sul Naviglio asciutto.

Dai monti il vento viene a gran carriera,
libero corre l’infinito piano,
ma quando scorge questa ciminiera
ratto si volge e fugge via lontano
ché il fumo è così nero e attossicato
che il vento teme che gli mozzi il fiato.

Siedon le vecchie a consumar l’ore
e a numerar la pioggia quando cade,
i visi dei bambini hanno il colore
della polvere spenta delle strade,
e qui le donne non cantano mai
ma rauco e assiduo sibila il tranvai.

A Crescenzago ci sta una finestra
e dietro una ragazza si scolora,
ha sempre l’ago e il filo nella destra,
cuce e rammenda e guarda sempre l’ora,
e quando fischia l’ora dell’uscita
sospira e piange, e questa è la sua vita.

Prime quattro strofe di una poesia di Primo Levi, del febbraio 1943. D.: cos’ha in comune Levi con un famoso romanziere triestino del Novecento? – R.: il romanziere è Italo Svevo; entrambi lavorarono in una fabbrica di vernici. Levi come chimico, Svevo come marito della figlia del proprietario.

Mari del Sud

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.

Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grande uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino.

Incipit de «I Mari del Sud» di Cesare Pavese. Pavese ebbe infelici innamoramenti, tra i quali uno con un’allieva quando insegnava al liceo torinese D’Azeglio. Quell’allieva in anni futuri farà parte della “Giuria di qualità” al Festival di Sanremo. D.: chi era l’allieva? – R.: Fernanda Pivano, americanista, traduttrice, intellettuale. (Sanremo 1999)

Work in Progress

Dell’asfodelo, quel fiore verdeggiante,
come un ranuncolo
sopra il suo gambo che si dirama —
solo che è verde e legnoso —
io vengo, mia dolce
a cantarti.
Vivemmo a lungo insieme
una vita piena,
se vuoi,
di fiori. Così che
mi rallegrai
quando la prima volta seppi
che esistevano fiori anche
in inferno.
Oggi
sono colmo della svagante memoria di quei fiori
che entrambi amammo,
persino questa povera
cosa senza colore —
la vidi quand’ero fanciullo —
di poco prezzo fra i vivi
ma che i morti vedono,
chiedendosi tra loro:
Che cosa ha questa
forma?
e i nostri occhi sono pieni
di lacrime.

Da una poesia di William Carlos Williams, poeta e medico pediatra. Nel 1956, a 73 anni, Williams scrisse la prefazione al poema del giovane caposcuola di una nuova corrente poetica americana.  D.: chi era il giovane? – R.: Allen Ginsberg; la corrente poetica la Beat Generation; il poema «Urlo» (Howl).

I Died for Beauty

Morii per la Bellezza; e da poco ero
discesa nell’avello,
che, caduto pel Vero, uno fu messo
nell’attiguo sacello.

«Perché sei morta?» mi chiese sommesso.
Dissi «Morii pel Bello».
«Io per la Verità: dunque è lo stesso
– disse – son tuo fratello».

Da tomba a tomba, come due congiunti
incontratisi a notte,
parlavamo così; finché raggiunti
l’erba ebbe nomi e bocche.

La poesia,i in questa traduzione, si trova nel romanzo di Giorgio Bassani «Il giardino dei Finzi Contini». D.: chi è l’autrice? – R.: Emily Dickinson

Marilyn

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore.
quella che corre dietro ai fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
e si mette addosso le loro sciarpette,
tocca non vista i loro libri, i loro coltellini,
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Sparì, come un pulviscolo d’oro.
Il mondo te l’ha insegnata.
Così la tua bellezza divenne sua.

Nel film «La Rabbia», nella parte diretta da Pasolini, la poesia viene recitata da una voce fuori campo. È di uno scrittore italiano in quegli anni sulla cresta dell’onda (anno 1963).  D.: chi recita? – R.: Giorgio Bassani («Il giardino dei Finzi Contini»)

Padre se anche tu non fossi il mio

Padre se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

Prima strofa di una poesia di Camillo Sbarbaro. In essa si evidenzia un procedimento stilistico che anche in italiano di solito viene indicato con un termine francese. D.: quale termine? – R.: enjambement (l’ultima parola di un verso si completa anche nel significato con la prima del verso seguente).

Moby Dick

«L’impressionante aspetto di Ahab mi colpì a tal punto, con quel taglio nella carne viva che ne deturpava il volto attraversando la barba e giù nel collo, al punto che per i primi istanti notai solo di sfuggita il fatto che non poco di quell’aspetto tanto feroce era soprattutto dovuto all’orrenda gamba bianchiccia grazie alla quale si reggeva in piedi. Mi era già stato riferito che l’arto in avorio era stato ricavato dalla mandibola, ben ripulita e ben lavorata, di una balena spermaceti.»

La prima apparizione del capitano Ahab in Moby Dick, di Herman Melville. A mutilarlo erano stati i denti di Moby Dick (un capodoglio) durante il loro primo scontro.  D.: quale gamba era stata amputata? – R.: Melville non lo dice.

Preghiera

Anima mia leggera,
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancor viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.

Poesia di Giorgio Caproni, presente nella raccolta «Il seme del piangere», anno 1959.  D.: a chi è dedicata? Alla moglie, al primo amore, all’amante, a una vecchia compagna di scuola, a un amore non corrisposto… – R.: alla madre, morta nel 1950.

Morte, io sorrisi

Morte, io sorrisi al tuo cospetto! e questa
certamente non fu la prima volta.
Il mio volto, ben noto alla sventura,
nel tremendo frangente di mia vita
s’atteggiava al dolore… e che dolore!
Nell’agonia l’amata donna! e un sorso
d’acqua negato a quell’inaridite
labbra! … Io sorrisi! Ma da disperato,
ma di demon fu quel sorriso. Il fuoco
dell’Inferno m’ardeva, e pur io vissi!

Inizio di una poesia. L’autore (nato nel 1807 e morto nel 1882) è universalmente noto per ben altra attività. D.: chi è? – R.: Giuseppe Garibaldi.

La donna con la lampada

Così pensavo, mentre a notte leggevo
della lunga schiera di morti,
della trincea fredda e fangosa,
dell’accampamento gelido e affamato,
Dei feriti sul campo di battaglia,
in ospedali tetri e dolenti,
lungo corridoi senza speranza,
con pavimenti di gelida pietra.
Guarda! in quella casa di dolore
ecco una donna con la lampada
passare tra incerti bagliori
e scivolare da una baracca all’altra.
E lento, come in un sogno di felicità,
il muto sofferente si volge per baciare
l’ombra di lei che si staglia
sulle pareti che entrano nell’ombra.
Come se si fosse spalancata la porta
del paradiso, poi subito richiusa,
la visione appare e svanisce,
così la luce brilla e si spegne.

Strofe, da una poesia del 1857 dell’americano Henry Longfellow, che celebrano «La Donna con la Lampada» (The Lady with the Lamp), descritta mentre, durante la Guerra di Crimea, assiste e conforta i feriti. D.: chi è la donna? – R.: Florence Nightingale, fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna.

Febbraio

Febbraio. Prender l’inchiostro e piangere!
Scrivere di febbraio a singhiozzi,
finché il tempo piovoso scrosciante
brucia come una fosca primavera.

Prendere una carrozza. Per sei soldi,
fra scampanio e stridere di ruote,
recarsi là dove la pioggia torrenziale
strepita più che lacrime ed inchiostro.

Dove, come pere incenerite,
dagli alberi mille cornacchie
cadranno nelle pozze rovesciando
una secca mestizia sul fondo degli occhi.

Nereggiano di sotto gli spazi disgelati,
e il vento è solcato dai gridi,
e quanto più a caso, tanto più esattamente
si compongono i versi a singhiozzi

Autore russo, famoso soprattutto per un unico romanzo che gli valse il premio Nobel, ma che, inviso al regime sovietico, non poté recarsi a ritirare. D.: chi è? – R.: Boris Pasternak («Il Dottor Zivago»).

Ode

Gioia, bella scintilla divina,
figlia dell’Elisio,
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.
Il tuo fascino riunisce
ciò che la moda separò,
ogni uomo s’affratella
dove la tua ala soave freme.

L’uomo a cui la sorte benevola,
concesse il dono di un amico,
chi ha ottenuto una donna devota,
unisca il suo giubilo al nostro!
Sì, chi anche una sola anima
possa dir sua nel mondo!
Chi invece non c’è riuscito,
lasci piangente e furtivo questa compagnia!

Parte di una poesia di Friedrich Schiller musicata e proposta per la prima volta in questa veste nel 1824, all’interno di una creazione molto più ampia. D.: Dove si trova la versione musicata? – R.: Nona Sinfonia di Beethoven.

Piccolo valzer viennese

A Vienna ci sono dieci ragazze
una spalla dove singhiozza la morte
e un bosco di colombi disseccati.
C’è un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille finestra.
Ahi ahi ahi ahi
Prendi questo valzer con la bocca chiusa.
Questo valzer, questo valzer, questo valzer,
di sì, di morte e di cognac che bagna la coda in mare.
T’amo, t’amo, t’amo
con la poltrona e con il libro morto,
nel malinconico corridoio,
nell’oscura soffitta del giglio,
nel nostro letto della luna
e nella danza che sogna la tartaruga,
Ahi ahi ahi ahi
Prendi questo valzer dalla cintura spezzata.

Inizio di una poesia di Federico Garcìa Lorca. La sua traduzione è stata impiegata da un cantautore-poeta canadese per una canzone in lingua inglese. D.: chi è il cantautore? – R.: Leonard Cohen («Take This Waltz»)

La ballata del vecchio marinaio

È un vecchio Marinaio,
e ferma uno dei tre.
«Pel tuo barbone grigio e l’occhio fulminante,
Perché mi fermi, di’?

«La porta dello Sposo è spalancata,
e io son parente stretto;
gli invitati sono giunti, la festa s’avvia:
senti l’allegro baccano che fanno».

Quello lo tiene con la mano scarna,
«C’era un nave», disse.
«Stammi lontano! E giù le mani, vecchio lazzarone!»
Tosto gli tolse la mano di dosso.

Ma lo tiene col suo occhio che lampeggia –
più non faceva un gesto l’Invitato,
e sta a sentire, come bimbo di tre anni:
la volontà del Marinaio è fatta.

L’autore del poemetto (questo l’inizio) è Samuel Taylor Coleridge. Il traduttore è un romanziere italiano, anche accanito traduttore dall’inglese, impiegato in una casa vinicola e famoso per un romanzo postumo. D.: chi è? – R.: Beppe Fenoglio («Il partigiano Johnny»).

Tu sei come

Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo
china per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il tento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
E’ migliore del maschio.
E’ come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.

Poesia di Umberto Saba. Prosegue con similitudini con altri animali: giovenca, cagna, coniglia, rondine, formica. Non è riportato il vero titolo in quanto rappresenta la risposta. D.: a chi è dedicata? – R.: alla moglie, Lina Wolfler.

La pioggia nel pineto

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamarici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove sui mirti
divini,
su le ginestra fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove se le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Parte della più famosa poesia di Gabriele D’Annunzio. In un’occasione il poeta incontrò un altro gigante del ventesimo secolo: Franz Kakfa. D.: dove, quando e in che occasione? – R.: a Montichiari (Brescia), in occasione del primo aerodromo italiano, anno 1909.

Parca – Villaggio

A lungo si parlò di te attorno ai fuochi
dopo le devozioni della sera
in queste case grigie ove impassibile
il tempo porta e scaccia volti d’uomini.
Dopo, il discorso cadde su altri ed i suoi averi,
furono matrimoni, morti, nascite,
il mesto rituale della vita.
Qualcuno, forestiero, passò di qui e scomparve.
Io vecchia donna in questa vecchia casa,
cucio il passato col presente, intesso
la tua infanzia con quella di tuo figlio
che traversa la piazza con le rondini.

L’autore venne nominato Senatore in occasione del suo novantesimo compleanno. Fu critico cinematografico e molto legato alla poetessa Cristina Campo. D.: chi è? – R.: Mario Luzi

Lo straniero da «Lo spleen di Parigi»

«Dimmi, chi ami di più, tu, uomo enigmatico? Tuo padre, tua madre, tua sorella oppure tuo fratello?»
«Non ho padre, né madre, né sorella né fratello»
«I tuoi amici?»
«Ti servi di una parola il cui senso mi è rimasto fino a questo momento sconosciuto»
«La tua patria?»
«Ignoro sotto quale latitudine essa sia situata»
«La bellezza?»
«L’amerei volentieri, dea immortale»
«L’oro?»
«Lo odio, come tu odi Dio»
Eh! Che ami dunque, straordinario straniero?»
«Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù laggiù… le nuvole meravigliose!»

Charles Baudelairie compose i «poemetti in prosa» tra il 1855 e il 1864. Nel 1860 scrisse una lettera a un musicista e compositore che era stato accolto con grande ostilità dal pubblico parigino. Il poeta volle manifestargli la propria stima.  D.: chi era il musicista? – R.: Richard Wagner.

Strinsi le mani

Strinsi le mani sotto il velo oscuro…
«Perché oggi sei pallida?»
Perché d’agra tristezza
l’ho abbeverato fino a ubriacarlo.

Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore…
Corsi senza sfiorare la ringhiera,
corsi dietro di lui al portone.

Soffocando, gridai: «È stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai».
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: «Non stare al vento».

Poesia di Anna Achmatova, tradotta da Michele Colucci. A Parigi la Achmatova frequentò Modigliani. Morì nel 1966. Ogni giorno leggeva qualcosa dell’opera di un grande italiano. D.: quale italiano? – R.: Dante.

E la tua infanzia, dimmi

E la tua infanzia, dimmi, dove sta la tua infanzia?
Io voglio la tua infanzia,
l’acqua che bevesti,
i fiori che calpestasti,
le trecce che annodasti,
le tue risa perdute.
Possibile che mie non siano state?
Dimmelo, sono triste,
quindici anni, soltanto tuoi, non miei.
Quella tua infanzia, oh, non celarmi!
Prega iddio che ci ridia il tempo.
Tornerà la tua infanzia e giocheremo

Poesia di Gerardo Diego. Diego fece parte di un gruppo di poeti comprendente anche Garcia Lorca. Il gruppo era contraddistinto dalla data dell’anno in cui si celebrava il trecentesimo anniversario di Luis de Gòngora. D.: come si chiamava il gruppo? – R.: Generazione del ’27.

Il dolore

Il dolore è un grigio, muto,
col viso scarno, gli occhi azzurro-chiari;
gli pende giù dalle fragili spalle
la borsa, scuro e logoro ha il vestito.
Dentro al suo petto batte un orologio
da pochi soldi; timido egli sguscia
di strada in strada, si stringe alle mura
delle case, sparisce in un portone.
Poi bussa. Ed ha una lettera per te.

Tradotta da Umbert Albini, poesia di quello che è considerato il maggior poeta ungherese del Novecento, morto nel 1937 a 32 anni. Accanto al Parlamento di Budapest sorge la sua statua, e quando il capo del governo Viktor Orban manifestò l’intenzione di farla rimuovere, la popolazione si ribellò. D.: chi è? – R.: Attila Jozsef.

Il Grande Gatsby

«Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare. “Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno”, mi disse, “ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi”. Non aggiunse altro, ma nel nostro riserbo siamo sempre stati sorprendentemente comunicativi e compresi che voleva sottintendere molto di più. Di conseguenza, sono incline a sospendere ogni giudizio, abitudine che mi ha aperto a un gran numero di persone strane e mi ha inoltre reso vittima di non pochi seccatori consumati, Una mente degenerata è lesta a riconoscere una simile caratteristica e ad attaccarvisi quando si manifesta in una persona normale, e fu così che al college mi ritrovai a torto accusato di essere intrigante perché ero al corrente delle pene nascoste di uomini sregolati e misteriosi.»

Inizio del romanzo di Francis Scott Fitzgerald nella traduzione di Tommaso Pincio. La vicenda si svolge nei primi anni ’20 del secolo scorso, nell’America dell’Età del Jazz e del proibizionismo. D.: come venivano chiamati i distillatori clandestini di liquori? – R.: moonshiner; il loro lavoro si svolgeva di notte (da “moon”, luna, e “to shine” illuminare, brillare).

La sepoltura dei morti

Aprile è il mese più crudele, genera
lillà da terra morta, confondendo
memoria e desiderio, risvegliando
le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
con immemore neve la terra, nutrì
con secchi tuberi una vita misera.
L’estate ci sorprese, giungendo sul lago
con uno scroscio di pioggia: noi ci fermammo sotto il colonnato,
e proseguimmo alla luce del sole, nel giardino reale,
e bevemmo caffè, e parlammo un’ora intera.
(…)
Mio cugino mi condusse in slitta,
e ne fui spaventata. Mi disse, Marie,
Marie, tieniti forte. E ci lanciammo giù.
Fra le montagne ci si sente liberi.
Per la gran parte della notte leggo, d’inverno vado nel sud.

Inizio de «La terra desolata», poemetto di T. S. Eliot. Eliot si avvalse della supervisione di un collega americano, che accorciò la versione che gli era stata sottoposta, e al quale sarà dedicata nella stesura definitiva. D.: chi era il collega? – R.: Ezra Pound.

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Poesia di Eugenio Montale dedicata alla moglie Drusilla Tanzi. Drusilla veniva chiamata “Mosca”, sia dal marito sia dagli amici.  D.: perché quel soprannome? – R.: portava occhiali molto spessa, il che le dava l’aspetto di una mosca.

Polvere di neve

Il modo in cui una cornacchia
ha scosso sopra di me
la polvere di neve
da un pino canadese

Ha prodotto nel mio cuore
un mutamento d’umore
che ha salvato parte
di un giorno spiacevole.

Composizione di Robert Frost. Frost prese ufficialmente parte all’insediamento di un presidente degli Stati Uniti, recitando due sue poesie. D.: quale presidente? – R.: John Kennedy

da Canne al vento

«Ma dimmi, dimmi Efix», proseguì accorata, «non è una gran cattiva sorte la nostra? Giacinto che ci rovina e sposa quella pezzente, e Noemi che rifiuta invece la buona fortuna. Ma perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?»
«Sì», egli disse allora, siamo proprio come canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.»
«Sì, va bene: ma perché questa sorte?»
«E il vento, perché? Dio solo lo sa.»

Nel romanzo di Grazia Deledda le “canne” rappresentano gli esseri umani, il “vento” il destino; tre canne, entro le quali l’esecutore soffia contemporaneamente, senza mai fermarsi per prendere respiro, costituiscono uno strumento musicale esclusivo dell’isola. D.: come si chiama lo strumento? – R.: launeddas

Un itinerario bacchico

«Non conoscete il Nepente d’Oliena neppure per fama? Ahi, lasso! Io son certo, che se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i Sardi chiamano Domos de Janas, per qui spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo. Io non lo conosco se non all’odore, e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi»

 Gabriele D’annunzio era stato in Sardegna con alcuni colleghi giornalisti. Ebbe modo di sentire il profumo del vino Nepente, che citerà nel 1910 in un articolo per «il Corriere della Sera». D.: perché si riferisce solo all’odore?- R.: secondo accreditati biografi, D’Annunzio era astemio.

Romagna

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:
sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Incipit di una poesia di Giovanni Pascoli. Nella prima strofa si accenna a San Marino. Nell’Ottocento ne fu offerta la cittadinanza a un Presidente degli Stati Uniti, che accettò dicendo «il vostro è uno degli Stati più onorati di tutta la storia». D.: chi era il presidente? – R.: Abramo Lincoln, anno 1861.

11  Canovaccio per un film fantacatastrofico

Il virus esisteva da milioni di anni: milioni di anni prima della comparsa dell’uomo sulla Terra. Nel corso della glaciazione, quella che oggi chiamiamo Periodo Cryogeniano, il pianeta era diventato una palla di ghiaccio, dai Poli all’Equatore. Il virus era rimasto intrappolato all’interno della “ghiacciaia”. Con il suseguente scioglimento dei ghiacci era venuto allo scoperto ma poi, via via, a causa dell’inusitato calore cui non era abituato, era scomparso quasi ovunque. Ne era rimasta traccia solo tra i ghiacci del Polo Nord. L’uomo ancora non l’aveva incontrato e quindi non aveva potuto sviluppare i relativi anticorpi. Nei decenni tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo l’aumento della temperatura della Terra fa sciogliere parte della calotta polare e allora ecco tornare a contatto con l’aria il vecchio virus. Proprio in quegli anni – i primi del Duemila – una spedizione segreta viene inviata dalla Cina a esplorare i ghiacci polari, alla ricerca di giacimenti di petrolio. Non si sa se la spedizione trovi il petrolio ma di certo trova il virus, e a sua insaputa ne viene contagiata. I componenti della spedizione rientrano in patria, in particolare a Wuhan, e da lì inizia la storia chiamata “Pandemia Covid-19”, contro la quale gli esseri umani ovviamente non dispongono di anticorpi.

Come finirà? Si propongono alcune alternative: 1. estinzione del genere umano; 2. morte del virus causata dalle radiofrequenze (a somiglianza del film La guerra dei mondi, anno 1953); 3. la popolazione superstite scappa per cercare rifugio in un imprecisato altrove (Gli uccelli, Hitchkock, 1963); 4. il virus alla lunga fa impazzire l’intera popolazione terrestre senza mutarne l’aspetto (L’invasione degli ultracorpi, 1956): 5. i vaccini messi a punto dall’uomo (meglio se da una donna) sterminano il virus.

12  Cultura: appunti su…

Nel 1871 Edward Burnett Tylor scrisse: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. La condizione della cultura nelle varie società del genere umano, nella misura in cui può essere indagata sulla scorta di principi generali, è un argomento che si presta allo studio delle leggi del pensiero e dell’agire umani. Da un lato, l’uniformità che pervade così estesamente la cultura può essere attribuita in larga misura all’azione uniforme di cause uniformi; dall’altro, i suoi vari gradi possono essere considerati come stadi di sviluppo o di evoluzione, ciascuno dei quali è il risultato della storia precedente e si appresta a compiere la parte che gli compete nel plasmare la storia futura.»

Questa è la cultura che possiamo definire “sociale” vale a dire di un esteso numero di persone che ne sono partecipi, che, spesso inconsciamente, la seguono e ne fanno “uso”. Quindi, per esempio, esiste una cultura del lago di Como (pescatori, fabbricanti di reti, cultura culinaria, cultura dei crotti…) e una cultura delle singole categorie di artigiani (ciabattini, muratori, fabbricanti di barche, operai delle fonderie…), di categorie professionali, di categorie di età (studenti – penso ai comportamenti nei confronti delle matricole universitarie – o la cosiddetta cultura giovanile). Anche la moda entra nella cultura sociale, sia pure con la sua aleatorietà: musica leggera, abiti, letture, accoppiamento. C’è anche una cultura religiosa, con la sua venerazione dei santi e le sue processioni. Il discorso sarebbe lungo, ma penso che già da qui ne si sia compresa la sostanza.

Poi c’è la cultura del singolo. E allora la faccenda si complica, perché entra fortemente in gioco l’erudizione, che non è cultura ma più semplicemente l’accumulo di nozioni che di per sé non fanno cultura. Con l’erudizione impariamo ad avere a che fare andando a scuola: date, nomi, battaglie, poesie a memoria, capitali Nazioni, confini, elenchi, misure… L’erudizione è sostanzialmente un esercizio (e una manifestazione) di memoria. Spesso è solamente esibizionismo. E’ fine a se stessa. Certamente contribuisce a fare cultura ma non è la cultura vera e propria. Ne diventa partecipe solo se permette in qualche modo di creare una padronanza interculturale (mi scuso per la tautologia), cioè se chi la possiede è in grado di sfruttare nozioni appartenenti a un ambito specifico al fine di spiegare fenomeni che in prima istanza appartengono a un altro ambito. Per esempio – ma è solo una mia personale considerazione – il ritratto pittorico è stato “fedele” al modello originale fino all’avvento della fotografia. I versi rimati sono stati messi in crisi dal verso libero, quindi dalla prosa. Il cinema ha soppiantato il romanzo. Il calcolatore da tasca ha eliminato – sia pure a livello bassissimo – la conoscenza delle quattro operazioni fondamentali. L’avvento dell’aereo e dell’automobile hanno sminuito il senso del viaggio e dell’esplorazione. L’avvento della televisione (immagini accompagnate da parola parlata) ha fatto regredire la necessità di essere in grado di leggere lo scritto, giornali compresi, e ha generato una sorta di analfabetismo di ritorno.

Personalmente non ho mai ammirato chi sa recitare a memoria l’orario dei treni o i risultati delle partite di calcio. Preferisco chi mi spiega le trasformazioni di una società attraverso il nascere, il convergere o lo svanire di alcuni suoi elementi culturali caratteristici. Che dire dell’espandersi odierno dei vari Facebook o Twitter ? Sono certamente un elemento dell’attuale cultura “sociale”, e contro questi fenomeni non si può fare nulla per contrastarli, anche se la solitudine – quella vera – si espande sempre più, ma l’illusione è esattamente l’opposto. Forse una piccola ribellione può essere rappresentata da certi circoli di persone che hanno – o credono di avere – interessi in comune. Un succedaneo della vecchia osteria o della bocciofila di paese, ma senza quella spontaneità che le caratterizzava.

La cultura può anche spiegare fatti altrimenti non compresi nella loro reale ragione o comunque ritenuti del tutto trascurabili. Un esempio molto banale. Anni fa fu di moda un film, La sporca dozzina, che in lingua originale si intitolava The Dirty Dozen. Ebbene, per il pubblico italiano era semplicemente la storia di dodici soldati da patibolo impegnati in un’impresa disperata. Per gli americani era diverso. Da loro Dirty Dozen sono chiamati i couplets verbali che sotto forma di cantilena si scambiano i ragazzetti del sottoproletariato nero in forma di sfida e nei quali coprono di insulti a sfondo apertamente sessuale le rispettive madri. Quindi non solo, come nel film, dodici individui che per sfuggire alla forca o all’ergastolo sono disposti a tutto, ma qualche cosa di ben più crudele, nefando, che trasuda odio e profondo disprezzo.  Quei dodici uomini sono anche il simbolo di tutto ciò. Culturalmente sono molto di più di un manipolo di pendagli da forca.

Eric Hobsbawm ha esaminato la categoria dei “banditi sociali”, il cui epigono è Robin Hood e che arriva fino a Salvatore Giuliano. Tutti aiutati dal popolo, fino al momento in cui commettono l’errore fatale (per Giuliano, la Strage di Portella della Ginestra). Sono un fenomeno decisamente culturale, con implicazioni sociali ed economiche, oltre che politiche. Woody Guthrie scrisse una canzone in cui parlava di Gesù Cristo usando la melodia della ballata su Jesse James, creando in questo modo una perfetta sintesi tra banditismo e religione sociale. Non per nulla sia James sia Gesù vennero messi a morte per intervento di un individuo della loro personale cerchia (probabilmente, uguale “incidente” per Giuliano). Ma se io non so chi era Jesse James, che era un vero bandito e assassino, che l’accostamento è una provocazione, che sullo sfondo vi è un substrato di socialismo, la portata del canto di Guthrie non viene da me colta.

(qui per ora mi fermo)

13  Il contabile

Questa notte ho parlato con il Grande Contabile. Quello che tiene il conteggio dell’esistenza di tutti i viventi. La computa su due colonne: quella del già vissuto e quella di quanto manca alla fine. E’ preciso fino al minuto secondo. La somma delle cifre delle due colonne, a pari altezza, dà sempre lo stesso numero, che è la durata della vita. Quindi il Grande Contabile sa quanto vivremo e quando moriremo.

Gli ho parlato e gli ho fatto una richiesta: Lui, al di fuori dal tempo cronologico comune, mi conceda un periodo di totale felicità da trascorrere con la persona che mi è accanto. La durata la stabilisca Lui stesso, ma sia almeno di un anno, magari di un solo giorno. Il tempo che avrò consumato in questo modo lo potrà scalare e computare nelle rispettive colonne che mi riguardano, ma senza creare sbalzi di conteggio, in modo che nessuno si accorga della piccola eccezione.

Il Grande Contabile ha riso e ha detto che per Lui va bene. Però mi ha avvertito: «Tu non sai quanto ti manca alla fine… potresti consumare tutto il tempo che ti resta e non ritornare più a quello regolare programmato a suo tempo. Finiresti nel nulla». Ho risposto che mi sta bene, che il gioco vale di gran lunga la candela, che forse sarebbe il modo migliore per raggiungere la meta finale. Ma se mai tornassi vorrei che mi rimanesse il ricordo. «Tu l’avrai… lei no. Per lei quel tempo sarà solo un miliardesimo di secondo, e un miliardesimo di secondo non contiene ricordi».

14  Quello che si cerca…

Settembre 2021. Nel corso delle numerose ed estemporanee serate trascorse insieme nel piccolo salotto di casa Leydi, Roberto più di una volta fece cenno al fatto che «si trova quello che si cerca». Non è ovviamente una regola, né assoluta né valida sempre e per tutti, ma il fenomeno trova spazio nella vita reale.

Roberto si riferiva alla sua esperienza personale. Quando era impegnato nel lavoro per I Dischi del Sole – casa discografica apertamente di sinistra – la ricerca era rivolta al repertorio del canto sociale, protestatario e anarchico della classi subalterne. Ne era nata la convinzione che l’aspetto strumentale in Italia non esistesse più. Passato a condurre e guidare ricerche, anche in prima persona, per la collana Albatros, di intento dichiaratamente antropologico, lo stesso Roberto aveva scoperto («si trova quello che si cerca») che nel nostro Paese era ancora presente e attivo un ricco repertorio strumentale (zampogna, organetto, piffero, launeddas, violino, chitarra battente, flauto diritto…).

Lo stesso fenomeno di “involontaria omissione” si ha oggi nell’ambito della pandemia Covid. Chi è contrario alla vaccinazione elenca decine di casi, tragici fino al decesso, come conseguenza dell’inoculazione dell’antivirus; chi è favorevole elenca altrettanti casi di salvifica inoculazione, accompagnata al massimo da quasi inavvertiti e transitori effetti collaterali (leggero rialzo febbrile, dolore al braccio, senso di spossatezza…). Vengono così a crearsi dannosi clusters di segno opposto, che possono portare all’odio sociale o addirittura nei confronti di una singola persona.

Quella che manca è una voce assolutamente scientifica, univoca e attendibile oltre ogni dubbio, che rispettando tutti i crismi dell’ufficialità dica con assoluta chiarezza quale sia la situazione reale. Con le sue cause, i suoi effetti positivi e quelli negativi, senza fare sconti a nessuno né dare adito a retropensieri o alla presenza di non comprovate macchinazioni, sia pure di segno opposto. Il caos in cui oggi veleggia la “situazione Covid” certo non aiuta lo spaesato cittadino, preda di una comunicazione a dir poco affastellata, incoerente e occasionale. Molta politica di basso profilo in chiave elettorale cerca di trarne vantaggio, e così pure l’industria coinvolta in questo allarmistico stato delle cose. L’editoria fa da cassa di risonanza.

In attesa di una terapia sicura e provata nel segno della certezza scientifica, la vaccinazione va consigliata, tenendo però assolutamente in conto l’esenzione per “giusta e documentata causa”. In ogni caso, un ruolo importante possono svolgerlo le cure domiciliari (anche in prospettiva preventiva) affidate al medico curante.

N.B. Questa è una riflessione da parte di una persona che non è addetta ai lavori ma un semplice osservatore del fenomeno.