Storia

8c Handicap: blindmen & blues

Nei primi anni del secolo scorso nel Texas si poteva incontrare un uomo di colore armato con una chitarra e con una inconfondibile voce. Lo si poteva trovare dalle parti di Dallas, di Silver City, di Galveston, e in altri luoghi ancora. Il suo cammino apparentemente casuale lo portava a esibirsi in party tra vicini di casa – spesso organizzati per mettere insieme i soldi per l’affitto -, durante i picnic, nei saloon, nei bordelli, nelle infime taverne dette barrelhouse, in tutti quei posti dove i suoi piedi e il suo istinto lo avevano condotto. Oppure lungo le strade. Poteva essere solo oppure accompagnato da altri musicisti vaganti come lui a formare un duo o anche un gruppo, oppure anche da un suo personale aiutante, un ragazzino di colore che lo guidava e che in cambio “rubava” lezioni di chitarra e imparava il suo canto e il suo repertorio, comprendente blues, lamenti, ballate, richiami, inni religiosi, worksong, canti di carcerati e altro. 

Quell’uomo con la chitarra, che in una delle poche fotografie che lo ritraggono ci appare irrigidito e vestito modestamente ma non senza una certa dignitosa accuratezza, impacciato, in giacca e cravatta e decisamente più che pingue, si chiamava Lemon Jefferson, detto Blind, un soprannome che gli era stato dato perché cieco. Era l’ultimo di sette figli. Sua madre si chiamava Classie Banks e suo padre Alec. Alec lavorava come contadino in una fattoria nei pressi di Wortham. Lavorava “da sole a sole” e il più delle volte anche alla luce della luna. Il piccolo Lemon era venuto in questo mondo nel 1897 (o forse nel ’93) a Couchman, Texas, e aveva sùbito imparato che la vita per lui sarebbe stata in salita.

A quell’epoca, da quelle parti e per quella gente “nera” c’era poco da sperare, al di là del sostegno, non sempre generoso, da parte della famiglia. Non c’era, e non ci sarebbe stata per decenni, assistenza sanitaria pubblica [Obamacare è del 2010, ndr]. Niente cure gratis dunque, solo sanità privata pagata con una copertura assicurativa. Ma come pagare un’assicurazione se il bilancio familiare galleggiava sulla soglia della sussistenza? Praticamente impensabile frequentare una scuola per non vedenti mentre restava quasi sempre un evanescente miraggio la pur lontana eventualità di trovare qualche genere di lavoro manuale che potesse assicurare una decorosa sopravvivenza. Però se la vista non c’era, c’erano le orecchie, le mani, la voce, la memoria e l’istinto di rimanere aggrappati al mondo. 

Lemon iniziò a cantare e suonare ancora adolescente esibendosi per qualche centesimo dove e quando la musica era richiesta e ricompensata. Oppure poteva rendere pubblico il proprio talento lungo le strade, affidandosi alla volubile generosità dei passanti. Così si diventava musici itineranti, e a ben vedere quella era già una bella fortuna. Il ventenne Jefferson si trasferì a Dallas e vi restò una decina d’anni, lavorando, a differenza del padre, soprattutto “dal tramonto all’alba”, perché quello era l’orario richiesto. Più tardi ampliò il raggio d’azione: Alabama, Georgia, Virginia e la vasta regione nota come Mississippi Delta.

A Jefferson capitò anche di incidere dischi. Un’ottantina per la Paramount e la Okeh. Questo accadde nella seconda metà degli anni ’20 sull’onda della scoperta, da parte anche delle grandi case produttrici, di un nuovo e fino ad allora occulto mercato, quello dei Race Records, “i dischi della razza”: interpreti “neri” per un pubblico di “neri”. Blind Lemon incise brani diventati archetipi e con essi arrivò il benessere economico. Morirà nel dicembre del 1929 a Chicago, dove fu trovato cadavere in una strada innevata, presumibilmente stroncato da un infarto. Diventerà leggenda. Un critico e musicologo, Samuel B. Charters, ha scritto: «Il suo canto era di gran lunga il più eccitante nell’ambito dello stile rurale di quel decennio». Dirà anche che l’uomo era «sporco e dissoluto».

Lemon Jefferson non fu l’unico colored ad aggiungere al proprio nome l’attribuzione di Blind. Tra gli altri, si ricordano Blind Willie McTell, anch’egli quasi totalmente cieco dalla nascita; Blind Gary Davis, con la vista ulcerata all’età di due mesi e piombato nel buio assoluto a trent’anni, il quale negli anni ’20 ebbe la fortuna di poter frequentare una scuola per non vedenti e a trent’anni entrò come ministro nella Chiesa Battista; Blind Blake, che per lungo tempo suonò e cantò lungo le strade della Georgia; Blind Boy Fuller, che trovò saltuariamente occasione di lavoro in una manifattura del tabacco; Blind Willie Johnson, che fin da ragazzino cantava nelle strade accompagnandosi con una chitarra fatta in casa.  Non mancavano neppure quelli che ciechi lo erano ma non lo dichiaravano nel il nome, soprattutto se l’handicap aveva colpito un solo occhio.

Non a tutti i non vedenti portavano dunque il “contrassegno”, ma per tutti la vita era una conquista inseguita giorno dopo giorno. Quella gente svolgeva la propria attività musicale andando in giro con una chitarra o altro strumento facilmente trasportabile, come l’armonica o il banjo. Dall’abolizione ufficiale della schiavitù, ottenuta con la Guerra Civile tra Nord e Sud, conclusasi nel 1865, e con il susseguente 13° Emendamento, le cose per i “neri” all’atto pratico non erano molto cambiate, salvo eccezioni. In alcuni casi erano addirittura peggiorate, dato che il padrone schiavista almeno un tetto e un po’ di cibo lo assicurava. La loro musica, il blues, veniva indicata dai “bianchi” con l’epiteto inquietante di «musica del diavolo». 

Un non vedente di colore faceva doppiamente parte di una minoranza: una prima volta perché era un nigger – un negro – e una seconda volta perché era un cieco. Due indiscusse e indiscutibili credenziali per occupare gli ultimi posti nella scala sociale. Ciò era vero non solo nel Sud ma anche nel Nord, vincitore e antischiavista, dove però l’opposizione all’arrivo dagli Stati meridionali di gente di colore fu durissima, al punto da imporre i ghetti nelle grandi città e con essi la segregazione razziale. I lavoratori di colore incontravano anche l’ostilità dei colleghi bianchi, ai quali sottraevano il posto accettando salari più miseri. I colored che potevano permettersi di farsi curare andavano negli ospedali a loro riservati: nessuna commistione “razziale” neppure nella disgrazia.

Box 1 – Ray Charles & Co.  Numerosi sono stati nel corso degli ultimi decenni gli interpreti non vedenti che hanno conquistato la ribalta, internazionale o più modestamente nazionale. Del primo gruppo fanno parte Ray Charles e Stevie Wonder, bruciaciaclassifiche discografiche di lungo corso; poi José Feliciano, sbarcato al festival di Sanremo nel 1971, dove si classificò secondo. Nel 1994, ancora a Sanremo, tra i giovani vinse Andrea Bocelli, una voce in comproprietà con la lirica e destinata a un futuro che avrebbe fatto incetta di dischi d’oro, e tra i Big a sorpresa Aleandro Baldi. Nel 1998 Sanremo laureò Annalisa Minetti (tornata alla ribalta nel 2012, con la partecipazione nella corsa alle Paraolimpiadi di Londra). Nel mondo del jazz due pianisti sopra tutti: il bianco Lennie Tristano, uno dei più raffinati capiscuola del cosiddetto cool jazz, il jazz freddo, e il vulcanico “colored” Art Tatum, padrone di una tecnica vertiginosa e di una proteiforme inventiva. Nella classica il pianista Nobuyuk Tsujii, con l’opera omnia di Chopin.

Box 2 – Un tempo, in Sicilia  «Dicono che Omero fosse cieco», era questa una immancabile frase del primo anno di latino, nella scuola anni Cinquanta. Anche Tiresia, inconfutabile veggente tebano, la tradizione vuole fosse affetto da cecità. Nella cultura classica e in quella popolare la mancanza della vista dunque si accompagna da sempre con altre straordinarie capacità, quasi al fine di creare una sorta di compensazione. Tra queste capacità, come negli uomini del blues, può figurare il canto e la innata predisposizione alla composizione verbale. In Italia diretti corrispondenti con il blind di colore nordamericano sono -o forse, più realisticamente, sono stati – gli «orbi» siciliani. Erano vecchi cantastorie privi della vista, i quali sovente si spostavano su un carretto trainato da un asinello. Agivano in ambiti di territorio molto ristretti ed erano specializzati in un repertorio formato in gran parte da storie di santi e di miracolati, che intonavano soprattutto presso i santuari e nel corso dei frequenti pellegrinaggi locali.

(Corriere.it)

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