In paese la notizia si era diffusa in pochi istanti, già alla mattina presto. Forse, la sera precedente, all’osteria, qualcuno, dopo un bicchiere troppo generoso, imprudentemente si era lasciato scappare un cenno rivelatore. E le buone orecchie avevano intuito: «Domani mattina nel torrentello verranno liberati alcuni avannotti di trota». Improvvisamente i maschi in pensione si erano sentiti scorrere nelle vene il fremito rinfrescante del pescatore d’acqua dolce. «Domani ci sarò anch’io!». «Dove?» «All’Oriale» «Ma quale Oriale, qui tutti i torrentelli si chiamano Oriale?» «Poco importa, uno vale l’altro. In mancanza di notizie più precise questo qui sotto andrà benissimo».
La mattina dopo andiamo anche noi. Senza canna, senza lenza, senza amo, senza esca. Andiamo così: armati delle sole nostre mani, di un paio di scarpe con la suola alta e nominalmente quasi impermeabili e portandoci appresso una gran sete d’avventura. Il programma è molto chiaro: si arriva fino in fondo alla valle, sotto i prati, là dove “viene fatto il fieno” per le vacche, si raggiunge il torrentello, ed entrati nella sua corrente, che non è forte e l’acqua è alta solo un ventina di centimetri, si comincia a scenderne il corso.
Gli avannotti verranno snidati sotto le pietre, tra le sterpaglie che crescono dove c’è qualche piccola rientranza della riva sassosa, tra un piccolo gorgo e l’altro, oppure là dove un ramo caduto ha creato una sorta di estemporaneo ostacolo o un benevolo rifugio. La cattura avverrà a mani nude, con i piedi nell’acqua e la schiena rivolta a valle. Come suggeriscono quelli che di queste cose se ne intendono.
Siamo in quattro. Oltre a mio fratello e me ci sono i due figli del contadino. Il maggiore, Giüanin, prende il comando delle operazioni. Da grande, assecondando una passione già ora evidente, farà il meccanico per auto e moto, mentre il fratello minore diventerà un fabbro molto apprezzato in tutta la zona.
Sui prati il sole fa sentire la crescente forza dei suoi raggi, ma lì, in quella lunga “galleria” formate dagli alberi che dalle rive opposte si inclinano verso la frescura dell’acqua in eterno e sommesso movimento, c’è senso di refrigerio e una penombra che conforta gli occhi. La pesca (o caccia?) inizia con il proposito di bagnare solo le scarpe “a prova d’acqua”, ma la realtà è ben diversa e al primo scivolone che inevitabilmente conclude il salto da una pietra all’altro, si decide che i piedi non saranno preservati. Poi nemmeno i pantaloni, e pure la camicia entra nella lista dei “sacrificabili”.
Scrutiamo l’acqua da ogni angolazione, infiliamo le mani sotto i sassi grandi e piccoli, cerchiamo di muoverci con la maggior lentezza possibile, non parliamo ma comunichiamo a gesti, mentre i raggi del sole filtrano tra rami e foglie creando baluginanti chiazze di luce sull’acqua che va via frusciando regolare. L’acqua è limpida, si vede chiaramente il fondo, si vedono anche piccoli cespugli d’erba piegati dalla dolce forza della corrente. Di pesci nessuna traccia. Ci imbattiamo in un raro gambero d’acqua dolce, in alcune rane che subito si rifugiano nella corrente, e troviamo una pozza formicolante di girini ancora portatori di quella coda che presto sparirà. Su un’altra pozza svolazzano silenziose alcune libellule, evidentemente a caccia di cibo. Da queste parti le chiamano “pista-pistün”, evidentemente con riferimento al movimento, su e giù, del pistone di un motore a scoppio.
La fame comincia a farsi sentire. Addentiamo il panino tagliato per il lungo, farcito con due bei pezzi di peperone giallo arrostito e spellato, con l’aggiunta di un’acciuga sottolio pure essa adagiata in senso longitudinale. Beviamo avidamente dalle borracce che abbiamo portato con noi, dato che dell’acqua dell’Oriale proprio non ci fidiamo. Sappiamo che sgorga parecchio più a monte, dalla collina che domina la vallata, ma non sappiamo chi e che cosa incontra durante il tragitto. Una premura ecologica è di là da venire.
Ė passata qualche ora, tra errati avvistamenti, inutili allarmi, vane speranze, invisibili presenze. Il divertimento è stato tanto, la compagnia piacevole e l’emozione, tra una cascatella e l’altra, uno scivolone e l’altro, si è fatta sentire. Non sono momenti che dimenticheremo presto. Con il sole allo zenit gli uccelli che fungono da custodi di questa alberata galleria avevano smesso di farsi sentire, ma ora, un poco per volta, riecco i loro richiami. Li scorgiamo là sopra, saltellanti da un ramo all’altro. Certamente stanno osservando ogni nostra mossa, pronti a spiccare il volo verso un rifugio più sicuro, fuori dalla nostra portata. Abbiamo anche scorto il musetto e la paffuta coda di una volpe, certo venuta qui per bere ma che ha battuto in precipitosa e silenziosa ritirata appena udito l’inusitato sciacquio provocato dai nostri piedi.
L’avventura è finita. Il rientro alla base, con tutta quell’erta salita che ci aspetta e le gambe ormai affaticate, non sarà uno scherzo. Ma siamo soddisfatti. Ė stata una giornata diversa e la mancanza di prede non ci angustia affatto. Era prevista.