Un giorno di Primavera, credo fosse quella del 1975, il mio amico ed etnomusicologo Bruno Pianta, allora Direttore dell’Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia, mi propose di unirmi a lui in una ricerca sulla presenza della musica popolare nell’abitato di Cegni, provincia di Pavia. Cegni è (ed era) un minuscolo paesino di una settantina di abitanti facente parte del comune di Santa Margherita di Staffora, a sua volta all’interno del territorio cosiddetto dei Quattro Comuni: Pavia, Piacenza, Alessandria, Genova. Quest’area si stende su altrettante regioni, e al suo interno conserva tradizioni musicali molto particolari e ben radicate. Tra le altre il suono, la musica e il repertorio del “piffero”. In quel momento il piffero (più correttamente un “oboe popolare”) aveva il suo massimo esecutore e rappresentante in Ernesto Sala, classe 1907, erede e prosecutore del mito di un suo parente, Giacomo Sala detto Jacmòn, «suonatore e mercante».
Incontriamo Ernesto Sala in un ampio locale presumibilmente messo a disposizione dal Comune. L’occasione infatti è da non perdere, sia da parte nostra sia da parte degli abitanti del piccolo paesello, ben incastonato nel verde, là dove gli Appennini hanno inizio. Con Sala ci sono i suoi soliti compagni di musica, tra i quali un fisarmonicista che esercita anche la professione di cacciatore di talpe. Il nostro richiamo è stato irresistibile: abbiamo il registratore per la musica e l’intervista, il video per le immagini e il suono, e la macchina fotografica per i particolari più specifici e significativi, come le dita sui fori dello strumento. L’auspicio è che il servizio vada in onda sulla televisione Rai. La certezza è che andrà arricchire l’archivio della Regione.
Nel locale messo a disposizione per la registrazione (forse funge anche da palestra e da luogo di riunione per le decisioni comunitarie) c’è tutta Cegni, più altri ansiosi spettatori venuti dai paesi vicini. L’attesa è palpabile. Ernesto, con l’abito “buono”, la cravatta della domenica e il panciotto sopra la camicia candida, siede su una pedana con accanto il fisarmonicista cacciatore di talpe. Il tecnico addetto alla ripresa cerca la posizione migliore per immortalare l’evento, ma chiede anche di lasciargli libertà di movimento per godere di più angoli da cui riprendere i musici. Bruno, registratore a tracolla, intervista brevemente l’eroe della giornata, mentre il fotografo scatta alcune foto. Io sto a guardare e ascolto.
Ecco la musica. La “voce” del piffero colpisce nel segno fin dalla prima nota. Tagliente, pulita, imperiosa, riempie l’aria, mentre Ernesto soffia, con sforzo a tratti evidente, per far vibrare l’ancia e produrre il suono. Le dita si muovono sicure e veloci lungo il corpo dello strumento, la melodia scorre precisa e liscia, senza tralasciare abbellimenti tra le varie frasi musicali, soprattutto quando i ritornelli si ripetono a breve distanza. Il repertorio è quasi esclusivamente costituito dai balli tradizionali di quest’area: Alessandrine, Monferrine, Gighe, Piane, Perigurdini…
L’uditorio si entusiasma. Alcuni accennano a un passo di danza, altri incitano i suonatori chiedendo un bis, la tentazione è battere le mani o lanciare incitamenti vocali, ma l’esigenza “cinematografica” lo sconsiglia. Le donne sorridono compiaciute (forse quella musica ricorda loro il primo incontro con il futuro sposo o addirittura il matrimonio); tra gli uomini cominciano a girare fiaschi di buon vino rosso locale, come accade quando Ernesto suona per i balli carnevaleschi o per altre occasioni speciali in giro per le valli. Tutto si svolge nell’ambito di una rigorosa e rispettosa convivialità. A ben vedere qualche intervento d’atmosfera e qualche siparietto estemporaneo non guastano ma “fanno verità”.
L’uditorio aumenta le proprie fila e la sala non basta più. Si apre la porta che dà sull’antistante pianoro, dove si riversa la musica e dovesi può ballare sul serio, senza intoppi e in piena libertà. Ballano anche i bambini, che non badano agli accoppiamenti, come d’altra parte succede tra i grandi. Il pifferaio non mostra il minimo cedimento e la sua maratona sonora sembra non avere fine; i pezzi si inanellano l’uno dietro l’altro non concedendo nemmeno uno stacco.
Purtroppo l’ora incalza e tra breve dobbiamo rientrare a Milano. Il malloppo è più che generoso, però – come fa notare lo stesso musicista – manca il tocco finale, il pezzo forte: la sequenza del ballo Povera Donna, dove si racconta, tra musica e ballo, la successione degli eventi che portano una giovane coppia dalla trattativa tra parenti al matrimonio. La Povera Donna convola a nozze e noi saliamo in macchina mentre il sole sta per tramontare.
Ernesto Sala ha lasciato il suo piffero e questo mondo un giorno dell’anno 1989. Era uomo che conosceva molto bene la sacralità del darsi del “Tu”, e questo dice molto del suo carattere.